La Vigevano di oggi e quella del beato Matteo Carreri sono profondamente diverse. Esistono ancora degli elementi di continuità? Più che nei luoghi forse in alcuni tratti socio-economici. La Vigevano della seconda metà del XV secolo – il domenicano Carreri visse tra il 1420 e il 1470 – contava poco meno di 5mila abitanti e gran parte di quello che oggi è considerato a pieno titolo città non era che contado, in gran parte incolto.
IRRICONOSCIBILE Neppure i monumenti sono gli stessi di allora. La Piazza risale a un ventennio dopo, quando il 3 maggio del 1492 Ludovico il Moro ne avviò la realizzazione. Coeva è la torre del Bramante, successiva la facciata della cattedrale, voluta dal vescovo Caramuel nel XVII secolo, ma del resto lo stesso duomo non esisteva visto che la diocesi fu istituita nel 1532, oltre sessant’anni dopo la morte del Beato. Successivi pure altri edifici come i palazzi Riberia, Merula, Roncalli. C’erano già alcune chiese, tra cui quella di san Pietro Martire, con l’annesso convento dei domenicani, costruita intorno alla metà del ‘400. C’era già anche quella di san Francesco, come la precedente costruita al di fuori delle mura cittadine per ospitare i frati minori, l’altro ordine mendicante.
A proposito delle mura, era già presente la Rocca Vecchia e c’era il castello, ma in una forma diversa da quella odierna, di cui rimane traccia nella forma a “U” del maschio.
LE FESTE E poi? Se il beato Matteo dovesse ripercorrere le stesse strade che calcò in vita probabilmente non le riconoscerebbe, ma qualche elemento di continuità lo troverebbe. La vocazione produttiva ad esempio, che nel XV secolo si esprimeva nella produzione di panni di lana, arrivata a toccare le 1200 pezze l’anno nel corso di quello successivo, impiegando un quarto delle famiglie. Ora che la calzatura è tramontata resta nelle aziende legate alla meccanica, alla meccatronica, alla pelletteria, un artigianato orgoglioso della sua storia anche se i mercati non sono più medievali, bensì mondiali. Un altro elemento d’inaspettata continuità sono le feste; il beato Matteo fu severo accusatore dei giochi licenziosi e dei divertimenti che profanavano i giorni di festa. Scendendo da via del Popolo e per tutto il centro storico avrebbe molte platee da esortare a un comportamento più sobrio.
WORKING POOR Non esiste però solo il beato Matteo dei sermoni, c’è anche quello della carità, come ricordano i documenti della causa di beatificazione e altre fonti domenicane. Un’elemosina particolarmente apprezzata nella Vigevano che Ludovico il Moro si apprestava a forgiare come sua “città ideale” – opera peraltro destinata a restare incompiuta – e che all’epoca era popolata da contadini e artigiani per cui l’indigenza era una dimensione quotidiana. “Working poors” ante litteram; e anche di questi, oggi, ne troverebbe tanti.
Giuseppe Del Signore