«Al processo, ho voluto guardare le foto delle perizie. Tutte, le ho guardate. Il corpo aveva fatto 4 giri completi intorno all’asse, prima che un operaio fermasse la macchina, che stava andando alla velocità massima. Ormai sembrava un gomitolo, aveva la testa schiacciata contro il rullo. È stato terribile guardare quelle immagini, ma ho dovuto farlo». Emma Marrazzo, intervistata da La Repubblica, ricorda il 3 maggio del 2021: quella mattina di tre anni fa esatti sua figlia Luana D’Orazio, 22 anni e un figlio, andava a lavorare al “suo” orditoio (che era stato manomesso, fatto per cui, insieme all’omicidio colposo, il manutentore è a processo e i titolari della ditta hanno patteggiato). Come in milioni di altre case avrà salutato le persone che amava, sarà salita in auto e sarà entrata in fabbrica pensando a quella che sarebbe stata la giornata, di certo non che nel giro di poche ore sarebbe stata una degli oltre 50mila morti sul lavoro italiane nell’ultimo mezzo secolo, mille ogni anno (119 nei primi due mesi del 2024, 19 in più del 2023).
La scarsa sicurezza di troppi posti di lavoro – l’Inail segnala in aumento anche infortuni e malattie professionali – è un tema che non sembra suscitare reazioni,
ma i morti non sono numeri, sono storie, sono vite come quella di Luana D’Orazio, di Lorenzo Parrelli (che a lavorare neppure ha iniziato, morto a 18 anni in stage), di Salvatore Nicolosi (45enne originario di Vigevano e residente a Zeme morto lo scorso 19 aprile dopo essere stato investito da un getto di fenolo),
volti che scorrono su smartphone e tv sotto sguardi distratti, in foto che paiono sempre un po’ “fuori luogo”: un volto sorridente, i capelli scompigliati dal vento, un’espressione furba; frammenti di vita ad accompagnare notizie di morte.
Forse non può che essere così. La storia della “festa” dei lavoratori è una storia di sangue: inizia nel 1886 negli Stati Uniti, a Chicago, centro della lavorazione delle carni parte della Steel Belt ormai ridotta a “Rust” (ruggine), dove il 1° maggio ci fu uno sciopero generale per la giornata lavorativa di 8 ore e tre giorni dopo, in uno scontro tra forze dell’ordine e manifestanti, morirono 11 persone. Proprio al “massacro di Haymarket” la Seconda Internazionale di Parigi, nel 1889, dedicò la “Festa internazionale”, che l’Italia adottò nel 1946. La seconda ricorrenza, nel 1947, vide la strage di Portella della Ginestra, altri 11 morti, aggrediti dalla banda Giuliano. Un nesso tra festa e lutto che ha ricordato il 30 aprile anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Non possiamo accettare lo stillicidio continuo delle morti, provocate da incurie, da imprudenze, da rischi che non si dovevano correre. Mille morti sul lavoro in un anno rappresentano una tragedia inimmaginabile. Ciascuna di esse – anche una sola – è inaccettabile».
Perché ciascuna di esse è una storia, una vita che non prosegue. Che rimane senza voce. E forse è suggestivo che per la Chiesa il protettore dei lavoratori sia san Giuseppe, padre putativo di Gesù: un uomo di cui i Vangeli non riportano neppure una parola e del quale si sa che era un falegname e poco altro, neppure quando è morto. A un certo punto scompare ed è tutto: come Luana D’Orazio il 3 maggio di tre anni fa.
Giuseppe Del Signore