Un campetto assolato sul quale corrono e si affannano ragazzi di ogni età e Paese; la porta di un ufficio dalla quale entrano ed escono giovani mamme nei più sgargianti abiti di ogni foggia e tradizione; i banchi di una chiesa sui quali seggono, fianco a fianco, l’anziana casalinga e il giovane papà che ha ancora nel cuore e negli occhi l’incubo di un’odissea che lo ha portato fuori da quell’inferno di sabbia e mare di cui Papa Francesco ha parlato nella sua recente catechesi del mercoledì.
Immagini e volti, storie di una quotidianità straordinaria e provocante che segna di anno in anno la vita di una normale parrocchia. È interessante, alla ripresa di un nuovo anno pastorale, fermarsi a contemplare con attenzione una realtà che descrive meglio di tante parole l’evoluzione non solo della contingenza, ma anche della natura stessa dell’identità di una comunità cristiana. Nelle indagini dei sociologi e sulle pagine dei giornali continua a campeggiare quel dato capace di togliere il sonno a pastori e “laici impegnati”:
Le chiese si svuotano e le parrocchie assomigliano più a centri servizi che a luoghi di preghiera e di formazione cristiana.
Solo uno sguardo più attento però sa andare oltre per cogliere in questo cambiamento che sicuramente sconvolge la nascita di qualcosa di nuovo, il sorgere di un esperimento di fraternità che, senza proclami o programmi prefissati, trova proprio nelle parrocchie terreno fertile per prosperare. Mentre la politica discute di integrazione e di controllo dell’immigrazione con termini come “ius scholae” e “flussi regolari”, negli oratori e nelle canoniche una risposta concreta assume la forma di un pallone da calcio, di una tavola alla quale si condivide un pranzo o semplicemente del saluto prima o dopo la celebrazione.
Lungi dall’essere una banalizzazione del problema, è indubbio che per una serie di fattori (con uno sguardo di fede si potrebbe chiamarli “Provvidenza”) ciò che sembra impossibile o forzato in tutti gli altri ambienti, dentro gli spazi della vita parrocchiale diventa normale e assume sempre più i contorni di una domanda che non può non tormentare il cuore e la mente di ogni battezzato: fino a che punto tocca a noi? Il “gioco delle responsabilità” è uno sport sempre più praticato e non sono rare le voci di sacerdoti o di collaboratori parrocchiali che paventano il rischio di una perdita dell’identità parrocchiale, di un suo diluirsi in mezzo ai tanti enti che “fanno qualcosa per gli altri”, per cui «va bene tenere le porte aperte, ma prima dobbiamo pensare alle nostre cose». Paradossalmente forse oggi proprio questo spazio offerto all’accoglienza e alla relazione fraterna diventa la vocazione fondamentale e il luogo nel quale annunciare il Cristo, Salvatore dell’uomo, di ogni uomo. Un annuncio che non che non sempre assume la forma classica della catechesi o della predicazione, ma che si riveste della prossimità e della familiarità, per poter essere accolto e risuonare con ancora più forza.
don Carlo Cattaneo