Abbiamo perso tutti, come società”. Sono lapidarie le parole pronunciate da Gino Cecchettin subito dopo la sentenza di condanna all’ergastolo per Filippo Turetta, l’ex fidanzato che nella notte tra l’11 e il 12 novembre ha ucciso con 75 coltellate sua figlia Giulia, 22 anni. Nessuna soddisfazione e nessuna convinzione che, fatta giustizia, anche la vittoria sia stata ottenuta. Anzi. “Come essere umano mi sento sconfitto”, ha continuato, facendo eco a quanto già affermato dal suo avvocato, “Nessuno vince oggi”. Dunque non solo l’amara constatazione di una tragedia dalla quale non si può tornare indietro, di un dolore che segnerà la vita di una famiglia con conseguenze ancora difficili da prevedere, ma uno sguardo più ampio che lancia un allarme (l’ennesimo) sulla società e sul modello culturale che la ispira.
A sottolineare la gravità della situazione è anche la quasi contemporanea condanna alla stessa pena di Alessandro Impagnatiello, emessa solo una settimana fa, ancora una volta per un omicidio maturato nell’ambito del rapporto di coppia. Violenze e relazioni affettive sembrano andare di pari passo spesso, troppo spesso fino a far pensare che, in fondo, finire sulle cronache possa essere un rischio da mettere in conto quando si inizia una vita insieme. Scioccante, eppure tragicamente realistico. Ma non si tratta qui soltanto del tema del patriarcato, di quella “cultura dello stupro” di cui ha parlato la sorella di Giulia nei giorni successivi alla scoperta del cadavere.
La malattia ha radici molto più profonde, che affondano in quelle domande di senso troppo spesso ignorate e silenziate non dalle coscienze dei singoli, ma dallo stesso sistema di pensiero.
Non si tratta solo di identità malate che esplodono per l’influsso di un’istituzionalizzazione della prevalenza di un genere sull’altro. Questa è solo una conseguenza. Alla base c’è il valore della persona in sé, al di là della sua connotazione e delle sue caratteristiche. Settorializzare questa dignità, stilando una classifica di soggetti maggiormente bisognoso di tutela, di situazioni di vita più o meno da difendere, costituisce esso stesso una violenza culturale e ideologica. E i nostri giovani la respirano. È quella retorica della libertà che finisce per imporre una dittatura insostenibile nel modo di ragionare, una dittatura delle grandi parole, ma spesso vuota di contenuti e che mira a deresponsabilizzare. Figlio di questo sistema di pensiero è il relativismo in ogni campo che ha le sue conseguenze estreme in quelle situazioni che la cronaca ci riporta e che non sono soltanto l’esito di condizioni familiari o di patologie psicologiche, ma sono esattamente il risultato logico di un modo di vedere l’uomo e le sue azioni come fondamentalmente svincolate da qualsiasi riferimento superiore a se stesso.
Demandare tutto al criterio della libertà, intesa come assoluta autodeterminazione, non fa altro che fare dell’uomo un mondo a sé stante, un universo governato da proprie leggi, incontestabili da parte di qualsiasi altra entità. In questo pianeta parallelo, amore e violenza non sono che due facce della stessa realtà, così come piacere e responsabilità o gioco e morte. È una terra dalle leggi crudeli e spietate che, se non si riesce ad espugnare, rischia di poter essere soltanto raccontata con l’impotenza del cronista che non può far altro che prendere atto di una realtà sulla quale non è possibile influire.
don Carlo Cattaneo