«Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via». Occorre partire dal chiasmo dei versi finali di “Città vecchia” di Umberto Saba per capire come mai papa Francesco, nell’omelia della messa che ha chiuso la Settimana Sociale di Trieste, abbia voluto citare proprio questa poesia.
Il chiasmo è una figura retorica che gioca sul parallelismo e l’inversione: incrocia due membri costruendo una proporzione. In questo caso “pensiero : puro = turpe : via” contrapponendo e mettendo in relazione i due aggettivi, puro e turpe, e i due sostantivi, pensiero e via. Saba mentre torna a casa prende «un’oscura via di città vecchia» incontrando tutta una serie di personaggi “umili”, «prostituta e marinaio», «il vecchio che bestemmia», «la femmina che bega», «il dragone» alla bottega «del friggitore», «la tumultuante giovane impazzita d’amore», una folla “turpe” appunto, vocabolo che Dante e Boccaccio usano per primi nell’accezione di “disonesto, vergognoso”. Eppure è proprio a contatto con queste persone che, riconoscendone la dignità e natura che lo accomuna a loro, Saba compie un rovesciamento e il suo pensiero si rischiara, diventa più “puro”:
sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore.
Un “Signore” peculiare quello del poeta triestino. «Saba – si legge in una biografia scritta da Stelio Mattioni – pur essendo profondamente religioso, non un materialista, non ha chiesa, non è né ebreo né cristiano né di altra religione». Eppure «è troppo legato alla vita per non credere al creato, all’esistenza di un Essere superiore». Al di là delle convinzioni dell’individuo, papa Francesco coglie una dimensione estremamente cristiana: «Il Signore si agita e si rende presente, e si rende una presenza amica proprio nella carne ferita degli ultimi, dei dimenticati, degli scartati. Lì si manifesta il Signore. E noi, che talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose, faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti alle ingiustizie del mondo?».
Un’apatia che necessita di essere scossa ed è questo l’obiettivo della Settimana sociale di Trieste, che vuole riportare l’uomo “al cuore della democrazia” riscoprendo la partecipazione. Un altro autore triestino, Italo Svevo, spiega perché è importante questo risveglio, riconoscendo nell’inetto – quelli che per Saba sono “detriti”, per Montale “ossi di seppia” e per il Papa il risultato della “cultura dello scarto” – una figura positiva perché ha gli occhia aperti e non si adatta a una modernità che disumanizza, in cui ognuno può apparire “turpe” se fissato in un unico gesto come avviene nella terza strofa di “Città vecchia” e non nella sua umanità. Anche De André (“La città vecchia”) coglie questo aspetto: «Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli […] Lì ci troverai i ladri, gli assassini […] Se tu penserai e giudicherai da buon borghese / Li condannerai a cinquemila anni più le spese / Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo / Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo». Altra città, altro porto, stessa folla: «Perché non contempliamo le miserie – si chiede Francesco – il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura, abbiamo paura di trovare Cristo, lì».
Giuseppe Del Signore