Sono morti abbracciati, ma non erano parenti e forse neppure si conoscevano, anche se questo è un mistero che nessuno mai potrà svelare. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. continua a raccontare storie a migliaia di anni dall’eruzione di ottobre che scatenò una colonna eruttiva alta 25km e una pioggia di pomici e lapilli che investì Pompei, Ercolano e molta parte della “Campania felix”, meta amata dai patrizi Romani e cancellata nello spazio di pochi minuti.
Lo fa attraverso gli scavi, i reperti, le iscrizioni, i calchi, ora anche tramite il Dna. La scorsa settimana sulla rivista “Current Biology” è stato pubblicato l’articolo “Dna antico sfida le interpretazioni prevalenti dei calchi in gesso di Pompei” (a firma di Elena Pilli, Stefania Vai e altri) in cui si presenta uno studio sui campioni genetici raccolti dai ricercatori durante il restauro di 86 dei 104 calchi pompeiani realizzati dal 1864 e ricavati iniettando gesso liquido nei vuoti lasciati dai tessuti molli. L’analisi ha permesso di
riscrivere la storia o le storie di un particolare gruppo di individui,
come ha dichiarato a Nature l’antropologo David Caramelli, uno dei co-autori. Nello specifico quello di un adulto che indossava un braccialetto d’oro e portava con sé un bambino, da sempre ritenuto una mamma che scappava col figlio, si è scoperto essere di un uomo, ma non il papà, perché i due non avevano alcun legame di parentela. Uno schiavo che stava cercando di trarre in salvo il figlio di un patrizio? Uno sconosciuto che ha cercato di aiutare un bambino rimasto solo nel caos?
Interrogativi, questi sì, che resteranno senza risposta. Allo stesso modo dei due corpi abbracciati nella casa del criptoportico, presentati come “sorelle”, si è scoperto che almeno uno è un maschio: un fratello? Due fidanzati? Due estranei che cercavano un ultimo conforto in un abbraccio? Ancora “padre e figlio”, morti stretti l’uno all’altro, in realtà non avevano legami genetici. Questo non vuol dire che non si conoscessero – chissà – ma solo che non era un legame familiare stretto a unirli a tal punto da vivere insieme l’ultimo istante della loro esistenza. Cosa si saranno detti e cosa avranno raccontato l’uno all’altro i rispettivi sguardi?
È possibile solo provare a immaginarlo, come quando si visita un museo archeologico e per un attimo ci si ricorda che gli oggetti nelle vetrine non sono reperti asettici, ma il vissuto di qualcuno e, in molti casi, l’ultima traccia del loro passaggio senza nome. Così ad esempio in quello di Napoli i gioielli, provenienti proprio da Pompei ed Ercolano, narrano storie d’amore, d’amicizia e d’affetto di cui s’è persa forse la memoria, ma non la forza. Un doppio anello d’oro con la base fusa a formare un corpo unico, legati da un intreccio centrale e con due smeraldi incastonati, parlano di un sentimento svanito tra i lapilli di duemila anni fa, ma di quel sentimento il gioiello trattiene l’energia, un’energia che continua a raccontare la sua storia a così grande distanza di tempo.
E lo stesso fanno i calchi: quegli abbracci, ora è noto, non sono abbracci di consanguinei. Sono abbracci di esseri umani, un’umanità che, di fronte alla morte, compie un ultimo gesto, un gesto d’amore. Come forse in questo momento stanno facendo due sconosciuti tra le macerie di Gaza, del Libano, dell’Ucraina o del Myanmar.
Giuseppe Del Signore