Il 15 gennaio del 1890 un inquieto ex-ufficiale dell’esercito, con alle spalle una vita disordinata e avventurosa, varca per la prima volta le soglie della Trappa di Notre Dame des Neiges in Francia con l’animo acceso dal desiderio di iniziare una vita di totale consacrazione a Dio. «Il Vangelo mi mostrò che il primo comandamento è amare Dio con tutto il cuore e che tutto va racchiuso nell’amore; ognuno sa che l’amore ha come primo effetto l’imitazione. Mi sembrava che niente rappresentasse meglio questa vita che l’abbazia trappista».
A scrivere queste parole in un momento così importante della sua vita è il 31enne Charles de Foucauld, inquieto cercatore della verità e neo convertito all’incontro con Cristo. Il suo itinerario verso la vita di Nazareth è solo all’inizio e lo porterà ad abbandonare il monastero per seguire, prima in Terrasanta e poi nel Sahara algerino, i passi del Beneamato al quale, dalla sua scoperta, ha desiderato unicamente appartenere. «Amo Nostro Signore Gesù Cristo e non posso sopportare di condurre una vita diversa dalla Sua… non voglio attraversare la vita in prima classe, quando Colui che amo l’ha attraversata in ultima classe». Questa ansia d’amore che gli brucia dentro lo porterà a vivere solo come fratello di tutti, fratello universale, a partire da quei Tuareg che lo accoglieranno dapprima come straniero e poi come membro del loro popolo.
In quella terra che era diventata la sua casa morirà, martire sconosciuto, il 1° dicembre 1916, senz’aver convertito nessuno alla fede. Ci si potrebbe chiedere il significato di una vita come questa. Una vita eremitica che diventa porta aperta per accogliere chiunque bussa per essere ascoltato, una missione dove l’annuncio non è predicazione del Vangelo, ma amicizia vissuta per tessere legami di fraternità con un progetto preciso: «Il mio apostolato deve essere l’apostolato della bontà. Se qualcuno mi chiede perché sono dolce e buono, devo rispondere: “Perché sono il servitore di un Bene migliore di me”».
In un contesto complesso come quello di una società che, come già scriveva Paolo VI «non ha bisogno tanto di maestri, quanto di testimoni», questo piccolo fratello può insegnare uno stile, un modo di essere discepoli che si fissa come via media tra un conservatorismo arroccato sulla difensiva contro un mondo ormai ostile alle fede e un relativismo capace di appiattire ogni problema con la logica «ognuno è libero di pensare come vuole».
Un cristianesimo di Nazareth, sui passi di quel Cristo fratello di ogni uomo, incarnato nella quotidianità e annunciato dall’apertura all’incontro con l’altro, ma maturato nella preghiera e nell’insostituibile a tu per tu con Dio, può essere forse la sfida affascinante alla quale oggi la Chiesa è chiamata. E in quest’ottica, al di là di ogni populismo e ideologia, la vera missione per ogni battezzato si vive quando ha il coraggio di desiderare semplicemente di essere prossimo di qualcuno. «Voglio abituare tutti gli abitanti della terra, a considerarmi come loro fratello, il fratello universale».
Dcc