Una storia forse un po’ dimenticata, archiviata insieme ai tanti episodi di violenza che ci arrivano dalle terre africane o dai paesi arabi. Portata alla ribalta da un film qualche anno fa, è forse fin troppo scomoda per poter essere raccontata a un grande pubblico, anche se a suo tempo riscosse un certo interesse con una interminabile serie di polemiche che ne ha determinato l’oblio per quieto vivere.
È la stupenda avventura umana e cristiana di sette uomini, tutti di nazionalità francese, monaci nella Trappa di Nostra Signora a Tibhirne. Siamo nel 1996 e l’Algeria, la terra che ospitava questa comunità partita nel 1938 per dare vita a un cenacolo di preghiera e di vita fraterna in piena terra musulmana, si trova ad attraversare una violenta guerra civile a seguito di un colpo di Stato per impedire il regolare svolgimento delle elezioni governative.
Lo straniero è guardato con diffidenza e diversi episodi di violenza, tra cui il massacro di alcuni operai nelle immediate adiacenze del monastero, fanno pensare alla necessità di un ritorno in patria per chi ha cercato di fare di quel Paese un luogo di incontro fra culture diverse e un’esperienza di convivenza che potesse essere per il bene di tutti. E in questo frangente avviene la scelta, travagliata e sofferta, dei religiosi con il priore padre Christian: restare per non abbandonare la gente che contava su di loro.
L’irruzione della notte del 26 marzo da parte di un commando islamico e il ritrovamento delle teste di sette dei nove monaci presenti nel monastero il 21 maggio successivo hanno umanamente dato ragione a chi consigliava una fuga prudente. Tuttavia le parole sommessamente lapidarie lasciate da padre Christian nel suo testamento non possono non far sorgere il dubbio che la loro sia stata la scelta migliore, anzi l’unica possibile.
Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Il martirio come opzione fondamentale della vita cristiana. È un concetto per noi impensabile, ma che ha sempre fatto parte del deposito della nostra fede. Sì perché la scelta del Vangelo, come ognuna sincera e degna di tal nome, o è estrema o non esiste. Allora ci fa bene leggere quelle righe, riguardare le foto di quei volti sorridenti e pensare che quegli uomini non sono stati uccisi per sbaglio, non sono stati vittime di una prova di convivenza evidentemente impossibile. Sono cristiani, semplicemente questo. Hanno incontrato il volto dell’Amore e lo hanno seguito nell’unica strada sulla quale egli conduce. Ed è così che si vince il mondo.
Don Carlo Cattaneo