Una vita povera, obbediente e casta. Un modello apparentemente fuori moda nella società dei consumi, nella liquidità di relazioni fondate sull’istinto e sulle sensazioni, di un modo di intendere lo stare in comunità come una somma di libertà individuali che cercano di non cozzare l’una contro l’altra. Apparentemente, in fondo, un fallimento o un modello superato. È l’utopia della vita consacrata che, con quasi 2000 anni di storia sulle spalle, continua a pungolare il ventre molle e riottoso di una società in continuo cambiamento. Sempre in crisi, eppure sempre viva con la sua capacità di riformarsi, adattarsi e, perché no, alle volte scendere a compromessi con il rischio di annacquarsi fino a quasi scomparire.
Eppure la Chiesa di ogni tempo ha dovuto confrontarsi con essa, ha beneficiato della sua vitalità e sofferto nei suoi momenti di corruzione e di stanca, contagiando anche la realtà civile e mondana che, dal più piccolo borgo rurale alla grande città, ha imparato a considerare questi uomini e donne «fuori dal mondo» un ingranaggio indispensabile per far funzionare la complessa macchina della società. È paradossale perché i teologi ricordano come, a differenza del sacerdozio e della gerarchia, Gesù Cristo non abbia istituito direttamente una forma di vita consacrata. Dunque, si sarebbe portati a pensare che la sua esistenza sia quasi perfettamente inutile.
Eppure a scorrere con attenzione le pagine del Vangelo si nota subito come la scelta del Maestro di vivere in fraternità, di non possedere beni e di non legarsi affettivamente in una relazione matrimoniale, non sia frutto semplicemente di una contingenza, ma nasca da una scelta precisa da cui dipende l’efficacia della missione.
Consacrato per essere libero e totalmente dedito al mandato del Padre. Questo lo stile voluto dal figlio di Dio per attraversare la Galilea e da lì arrivare fino agli ultimi confini della terra con il suo annuncio di salvezza. Questo il valore che ancora oggi la vita religiosa (nella sua fisionomia secolare o conventuale) continua ad assumere non solo per quanti l’abbracciano come scelta di vita, ma per tutta la Chiesa che respira di quella totalità e radicalità che essa incarna. È su questi due aspetti allora che si deve cercare, indagare, lavorare per leggere e superare le ragioni di una crisi, a ben guardare solo apparente, che fa sobbalzare non poche secolari Istituzioni.
Il sale che perde il sapore è buono solo per essere gettato, dice il Vangelo, e una vita consacrata che smetta di essere integrale e liberante perde la propria ragion d’essere e rischia di rappresentare il sintomo di una comunità cristiana ormai troppo confusa con il mondo per poterlo scuotere come luce e fuoco. Riscoprire e affrontare l’imperativo di questo aut aut è allora l’unica via di uscita per abitare ancora la sfida che la scelta di speciale consacrazione lancia ad ogni battezzato, ma anche e soprattutto per tornare ad una fede militante e missionaria al di là della quale non ci può essere spazio per il cristianesimo oggi.
don Carlo Cattaneo