«Suprema la responsabilità della scelta di questo 2 giugno! Dipendono da essa le sorti non solo politiche, ma spirituali e morali della nostra sanità di popolo […] La battaglia della Costituente è impegno di coscienza per ogni cittadino: fatto di difesa di una civiltà storica e del suo contenuto spirituale. Si tratta delle fondamenta cristiane dello Stato da assicurare all’Italia». L’Araldo del 30 maggio 1946 si concentrava sulla composizione che avrebbe assunto l’Assemblea Costituente e non approfondiva il tema della scelta tra monarchia e repubblica, ma aveva ben chiaro che il popolo italiano era «ormai a quindici giorni da questo grande avvenimento storico la cui importanza non ha paragone con alcun altro nella nostra storia nazionale da cento anni in qua» (edizione del 16 maggio).
Un’importanza che risiedeva nei due dati di fondo: gli italiani si sarebbero dati una carta fondamentale e il nuovo Stato sarebbe stato democratico. «L’Italia – scriveva sempre il 16 maggio – non ebbe mai un’assemblea costituente prima di questa, perché lo Statuto del 1848 fu emanato direttamente dal re Carlo Alberto. Stavolta invece, secondo i principi della vita democratica, la costituzione dello Stato sarà elaborata e fissata da un corpo di Deputati nominati dal popolo italiano, col preciso compito di dare all’Italia il suo nuovo Statuto, conforme alle nuove condizioni politiche e sociali che l’immenso rivolgimento avvenuto nel mondo, e particolarmente nella nostra Patria, hanno determinato […] si tratta dunque d’una decisione che avrà ripercussioni secolari nella storia della nostra Patria».
A un avvenimento di tale portata dovevano essere presenti tutti e anche il settimanale diocesano ricordava che votare era obbligatorio, sperando che
la semplice sanzione morale giovi a svegliare coloro i quali per disinteresse o per pigrizia si asterrebbero dal compimento di questo grave dovere.
Oggi l’obbligo non c’è più (resta il dovere, art. 48 Costituzione), ma il costante calo dell’affluenza – comune a tutte le democrazie cosiddette “mature”, forse litote per senescenti – suggerisce che la sanzione morale non è più sufficiente. Cosa rimane oggi di quella grande partecipazione (votò l’89.1% degli elettori, per la seconda volta le donne)?
La risposta arriverà tra poco più di una settimana alle elezioni europee; l’ultima rilevazione di Eurobarometro indicava che il 70% degli italiani ha intenzione di presentarsi alle urne e se così fosse si tratterebbe di un’inversione di tendenza positiva: nel 2019 votò il 56.1%, nel 2014 il 58.7%, nel 2009 il 66.5% e alle politiche del 2022 il 63.8%. Il calo per le parlamentari è iniziato nel 1979 (con rimbalzi nel 1987 e 2006) e dal 2013 il “non voto” è stabilmente il primo partito italiano (arrivato al 37.3% all’ultima tornata). Se ci sarà rialzo e se addirittura questo primato sarà scalfito, sempre secondo le previsioni dovrebbe essere merito della partecipazione dei giovani (il 67% degli under30 dovrebbe votare e c’è un 9% di indecisi). I segnali, anche violenti, di un’accresciuta presenza nella scena pubblica ci sono (Fridays for future, Ultima generazione, manifestazioni per la pace e pro-Pal, occupazioni universitarie, marce studentesche), il 9 giugno si saprà se avranno trovato anche nel voto una forma di espressione; anzi, la forma per eccellenza nella democrazia.
Giuseppe Del Signore