Bestiario / Nutria, un infranto sogno borghese

Quando risalgono dai fossi, con la pelliccia ancora umida, e si mettono a masticare l’erba attorno agli argini, le nutrie sembrano animali in totale simbiosi con la Lomellina, terra di canali e paludi. E pare un accidente del destino che questo roditore acquatico simile a un castoro, ma dalla coda a punta come quella di un ratto e dai caratteristici incisivi arancioni, si sia invece evoluto lontanissimo da qui, sull’altra sponda dell’Atlantico, nelle aree umide di Cile, Uruguay e Argentina. Come ci è arrivato quindi in Lomellina?

Negli anni ‘60, quando l’emigrazione italiana nelle Americhe cominciò a scemare, la nutria fece il viaggio opposto sbarcando nel Belpaese: non a nuoto, ma importata dagli imprenditori nostrani che qui volevano innestare il business delle “pellicce di castorino”. Le mode però passano in fretta e quando la pelliccia smise di essere un “must have” molti allevatori decisero di sbarazzarsi delle nutrie lasciandole libere: le colorazioni particolari che hanno alcuni esemplari (nero, bianco, chiazzato, crema) è il retaggio delle varietà selezionate all’epoca. Si diffuse praticamente ovunque, soprattutto in pianura Padana, anche perché la nutria in Italia non ha molti predatori: raramente la volpe, potenzialmente il lupo (ma non così spesso), forse lo sciacallo. I primi due in Lomellina sono presenti (lo sciacallo non si sa, però ne parliamo un’altra volta…) ma non sembra essere un fattore d’ostacolo alla proliferazione del castorino, la cui causa primaria di decesso resta l’uomo, sia per gli investimenti stradali, sia per i (vani) piani di eradicazione tramite la caccia.

In quanto specie alloctona, l’ambiente non ha gli “anticorpi” per sostenere la sua presenza senza conseguenze: la nutria può essere vettore di agenti patogeni dannosi per altri animali, oppure nutrendosi può scombinare i delicati equilibri degli habitat acquatici. A livello materiale, i danni che provoca all’uomo sono all’agricoltura, nutrendosi di piante e scavando negli argini. Ma forse c’è anche un’altra ragione, meno tangibile, che spinge molti a non sopportarne la vista. Torniamo agli anni ‘60, a quel boom economico mai così lontano. La nutria ci sbatte in faccia la fine di quel periodo idealizzato, l’infranto sogno piccolo borghese di mettere una pelliccia sulle spalle di ogni signora. E senza bisogno della lotta armata: deportata e abbandonata, la nutria non fa altro che sopravvivere, e con lei sopravvive anche la memoria dei nostri errori.

Alessio Facciolo

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