Il cercatore di Gargoyle, col pesante cappotto nero che gli pendeva lungo i fianchi ondeggiando a ogni passo, avanzava lentamente nella cattedrale in cui raggi fumosi di luce filtravano attraverso le vetrate. Era una chiesa piena di colonne, archi e scalinate che sparivano al piano superiore, dove si poteva immaginare che Dio si divertisse a giocare a nascondino.
Sembrava davvero qualcosa di irreale, quella visione di un ambiente oscuro in cui la solidità delle colonne lottava contro lo slancio delle arcate che le sovrastavano, tendendo a loro volta verso un cielo che non era possibile vedere se non attraverso il filtro multicolore delle vetrate gotiche, popolate da santi e demoni, vergini e dragoni. Nell’aria, insieme al profumo dell’incenso, aleggiava il suono caldo e avvolgente di un organo a canne. L’uomo avanzò nella penombra. Mentre gli altri, seguendo la moda del momento, cercavano i Pokemon nei cimiteri, lui cercava i Gargoyle nella cattedrali. Cercava il senso di quei mostri, di quell’avvertimento celato, rivelato nella pietra scolpita da secoli. Perché quel desiderio atavico nell’uomo di raffigurare l’inquietudine, la paura? Perché quella dolente, ironica nota di terrore nel tempio di Dio? Forse un’eredità del paganesimo, per un’umanità restia ad abbandonare la credenza in tanti piccoli dei protettori, anticipo dei santi cristiani? Aquile e cani, leoni e serpenti: animali di casa, a volte, come angeli nascosti, a guardia del focolare.
O forse era la consapevolezza stessa che quel Dio invocato per la pace fosse venuto a portare la spada?
Quell’inquietudine, quelle fauci spalancate, le schiene curve come per prepararsi a balzare sulla preda, non erano forse l’incarnazione della paura di trovarsi davanti al Creatore e di non poterne reggere la visione? Un monaco, qualche colonna più avanti, gli dava le spalle. Quando sentì i passi del cercatore, si voltò rapidamente verso di lui. L’uomo avvolto nel pastrano scuro ebbe il dubbio che il cordone di colore marrone chiaro penzolante tra le pieghe del saio, in realtà, potesse essere una coda. Ma il frate sorrise, chinò il capo in cenno di saluto e scomparve oltre un’arcata, quasi dissolvendosi nel pulviscolo di quella luce nebbiosa che filtrava dalle vetrate rosse e blu di sangue e di cielo. Fuori anche il sole, come i mostri di pietra mescolati ai santi e agli angeli, si nascondeva tra le nuvole.
Davide Zardo