Nelle notti di primavera, quando l’aria si faceva tiepida, il quartiere si trasformava in una trappola amabile. Dal mare spirava una brezza profumata, le colline rese rosse dall’inverno ritornavano lentamente a stendere il manto del loro verde abbraccio intorno alla valle. I campi in fiore sussurravano i nomi degli amanti, con un tremore che spingeva quel bisbiglio a cambiarsi in urlo, quasi sommessamente gridando.
Erano sere di festa, di complotti amorosi e gioie segrete, annunciate senza clamore quasi per uno scaramantico timore di perdere tutto, di spegnere i sorrisi, chiudere le finestre sulla notte che lentamente si trasformava in giorno, tornare a farsi abbracciare dalle rosse colline bruciate dall’inverno. E se in un mattino di primavera io salissi in automobile per intraprendere un viaggio nei misteri di luoghi che ancora non conosco, vorrei attraversare le distese allagate degli specchi d’acqua di risaia, che riflettono il cielo, e sapere che in quel blu ancora oscuro, ma limpido, tendente al cobalto, l’aereo che ti riporta da me sta volando. Allora punterei verso l’aeroporto, con le sue torri e i radar e le luci intermittenti, verso la folla che si muove – forse qualcuno senza sapere dove – e una volta arrivato, entrerei in quell’universo di anime che partono e che arrivano, mischiandomi alla massa in viaggio, quasi un esodo, per bermi la distesa delle piste di decollo che si stende intorno. Ma è l’atterraggio che mi preme, e allora guidato dalla voce che annuncia il tuo arrivo rimbombando dall’altoparlante, lascerei l’ombra inquietante del parcheggio coperto – un enorme letto a castello su più piani – per entrare in un castello ancor più grande, in cui si smistano gli arrivi e le partenze, e una volta trovato il tuo nome – quello del tuo volo – nelle scritte luminose dei tabelloni,
cercherei quel punto in cui tu apparirai oltre le porte scorrevoli di vetro, e sorridendo ti verrei incontro, anch’io volando, una mano tesa per portarti la valigia, l’altra protesa verso il tuo caro viso, per sfiorarti una carezza, e mangiandoti in un bacio ti direi che t’amo e che mi sei mancata tanto.
Ma adesso posso dirti soltanto che mi manchi, e non so quando tornerai, e se mi stai ascoltando. Perché il luogo più grande e più pericoloso, in cui faccio sempre fatica ad orientarmi, è quel mistero che porta il nome tuo.
Davide Zardo