Il Racconto / Il taccuino silenzioso

Emma entrò nell’hospice con passo lento, il soprabito spiegazzato le ricadeva sulle spalle come un mantello stanco. Profumava di pioggia e di inchiostro, un odore familiare che sembrava portarsi dietro i ricordi di mille pagine annotate in notti insonni, sotto la luce fioca di una lampada. Aveva in tasca un taccuino, ma non lo estrasse mai. Non ne sentì il bisogno.

Le storie che le raccontarono non avevano bisogno d’inchiostro: erano già vive nell’aria, sospese nei respiri flebili dei pazienti, nei loro sguardi lucidi, nella voce che a volte tremava sotto il peso dei ricordi. La accolsero come si fa con una vecchia amica, qualcuno che, senza aver bisogno di troppe domande, sa esserci. Un uomo le raccontò di una donna che aveva amato per tutta la vita senza mai trovare il coraggio di dirglielo. Un altro le parlò di un viaggio in India, molti anni prima, e del profumo delle spezie che ancora sentiva nelle narici, come se il tempo non fosse passato. Una donna dal volto scarno, con le mani sottili come carta, le sussurrò di un figlio perduto, di lettere mai spedite.

Emma ascoltava, annuiva, a volte accennava un sorriso. Sentiva il taccuino bruciare nella tasca, ma sapeva che non avrebbe scritto nulla. Non questa volta.

Per la prima volta nella sua vita di scrittrice, le parole non le appartenevano. Erano doni, segreti offerti nel crepuscolo della vita, e lei non voleva profanarli trasformandoli in letteratura. Un anziano con gli occhi cerchiati di ombre le raccontò di una sera d’estate in riva al mare, quando era ancora un ragazzo. Di un’onda improvvisa, del corpo esile di suo fratello che gli scivolava via tra le braccia, del senso di colpa che non lo aveva mai abbandonato. Emma sentì la gola serrarsi, ma rimase in silenzio, perché quel silenzio era ciò di cui l’uomo aveva bisogno: una presenza muta, capace di contenere il dolore senza spezzarlo con parole inutili. Un’infermiera passò nel corridoio con un carrello di medicinali e sorrise a Emma con discrezione, quasi ringraziandola per quella visita silenziosa. La stanza era piena di sussurri e di respiri lenti. Qualcuno dormiva con la testa reclinata sul cuscino, le mani abbandonate sul lenzuolo bianco. Quando uscì dall’hospice, l’aria era densa di umidità e la notte si stendeva morbida sulle strade. Chiuse gli occhi per un istante e lasciò che la quiete l’avvolgesse. Non aveva pagine scritte, solo un silenzio pieno di storie dentro di sé. Un silenzio che, in fondo, sapeva di rispetto.

Davide Zardo

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