Il Racconto / Riflessioni sotto la pioggia

Sì, lo so che è strano, ma a me la pioggia piace. Non solo quando la osservo al riparo, da dietro la finestra, e ascolto il ticchettio delle gocce che parlano sui vetri. Amo la pioggia anche quando sono in strada, e magari senza ombrello. La pioggia è grigia, bianca, luccicante. Brilla come un diamante, con le gocce che rimbalzano schizzando brevemente verso l’alto quando toccano terra. L’asfalto lucido o poroso le respinge o le assorbe, l’aria tutt’intorno si rinfresca di un nuovo respiro, le piante sussurrano, gridano nel vento, le luci delle automobili lasciano una scia più lenta, la gente a piedi affretta il passo. Io cammino lentamente, invece, per godermi questa pace liquida, come lacrime di gioia.

C’è sempre qualcosa di magico nel vedere due persone camminare sotto lo stesso ombrello. E’ come vivere sotto lo stesso tetto e portarsi dietro un pezzo di casa, una sezione mobile della propria tana, un rifugio che si sposta sotto la pioggia. Il sole c’è, ma è nascosto non solo dietro le nuvole, ma proprio sotto quell’ombrello. Che siano innamorati, amici, parenti, quei due hanno stretto un patto che li ripara dalle difficoltà della vita. E la pioggia è solo una delle più piccole, un ostacolo che si supera grazie a un ombrello. Anche uno solo in due, ma lo si divide. Come per il resto della vita. Si va avanti insieme, condividendo le risorse. Può anche capitare di vedere sotto lo stesso ombrello due persone che non si conoscono, e allora è qualcosa di magico. Quei due, sconosciuti fino a qualche attimo prima, adesso sono vicini. Hanno stretto un patto che durerà solo qualche minuto.

Ma in qualche modo misterioso le loro anime rimarranno strette sotto quella piccola cupola. Per sempre.

Sembra un vecchio ombrello da borsetta, rotto, in una pozzanghera alla fermata dell’autobus. Lo sto ancora guardando chiedendomi chi può averlo lasciato lì, quando arriva una signora sulla settantina, i capelli grigi corti, occhiali rotondi, un sorriso radioso sul volto. “Ah, meno male, la sciarpa di mio marito, credevo d’averla persa. Ci tenevo, perché era un suo ricordo”. Il foulard è sporco e bagnato, ma lei lo raccoglie come una reliquia, e lo ripiega senza paura d’imbrattarsi. Arriva il mio bus, e salgo, mentre rimane giù a parlare con una coppia anziana. Aspetta un altro autobus, un altro viaggio. Ha appena smesso di piovere, il cielo si apre dal grigio all’azzurro.

Davide Zardo

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