Mi assale, a volte, il ricordo di un’afosa sera d’estate di alcuni anni fa, quando per un giornale mi toccò occuparmi di un suicidio. Allora scrivevo per due settimanali della provincia di Pavia. Uno non si occupava di suicidi, l’altro sì. Un giovane s’era buttato sotto un treno a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di Valle Lomellina, dove allora abitavo.
Aveva lasciato nell’automobile non chiusa a chiave, posteggiata in uno spiazzo nei pressi dei binari, una lettera che nessun giornalista vide mai, e il telefonino cellulare abbandonato sopra il muretto di un ponticello da cui era sceso sui binari pochi secondi prima che arrivasse il convoglio. Il macchinista proveniente da Olevano se l’era trovato all’improvviso sui binari e non aveva fatto in tempo a frenare. Non so perché il ragazzo avesse scelto proprio quel posto, vivendo in un’altra città, Mortara, poco distante. Forse perché quell’angolino era isolato, tranquillo e pieno di pace: quella che lui cercava dentro di sé, e che evidentemente non aveva mai trovato. Il medico legale arrivato da Pavia, un romano tozzo, massiccio, coi capelli cortissimi, pieno di umanità nascosta sotto una scorza dura, sembrava uscito da un film del Monnezza, di quelli con Tomas Milian che interpretava la parte di un poliziotto anticonvenzionale, il maresciallo Nico Giraldi.
Aggiornalista, – mi disse quando lo avvicinai e mi fui presentato (all’inizio mi aveva preso per uno delle pompe funebri) – che te devo dì? Famme ‘n favore: nun stà a scrive che s’è buttato, che la famiglia sarà già disperata. Dì che è stato un incidente, famme ‘sta cortesia.
Lo accontentai e nell’articolo accennai alla probabile ipotesi di una disgrazia, senza peraltro fare il nome della vittima, di cui mi avevano lasciato vedere la carta d’identità. Ma ricordo ancora che a un certo punto il cellulare che il ragazzo aveva lasciato sul muretto iniziò a suonare, senza che nessuno, tra il viavai di operatori sanitari e forze dell’ordine, avesse il coraggio o il tempo di rispondere. Un amico, forse, magari un familiare che lo cercava. E che non lo avrebbe più trovato. Quel telefonino continua a risuonare nella mia mente, a volte, soprattutto nelle sere ancora luminose d’estate. E ogni tanto mi sveglio, la notte, pensando a quel portatile che continua a suonare, e suonare, e suonare ancora, nel buio che avanza. E nessuno risponde.
Davide Zardo