Fauda è un termine arabo che significa “caos”. Lo sanno bene i cinefili, perché questa parola dà il titolo a una serie israeliana sul conflitto tra Israele e Palestina. L’ultima stagione è ambientata in Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin. Sebbene in quella regione governi Fatah, le bandiere nere con scritte coraniche che sventolano all’entrata del campo sono un chiaro avvertimento per i più sprovveduti:
qui comanda Hamas
Per questo motivo, dopo gli attacchi del 7 ottobre, l’esercito di Netanyahu, oltre ad assalire Gaza, ha bombardato la moschea Al-Ansar, situata in mezzo all’insediamento, e ha arrestato numerosi jihadisti.
VITTIME Il caos, la fauda, regna sovrano in Israele e nei territori Palestinesi. Da noi invece, in occidente, il manicheismo ci ha fatto entrare nella pericolosa dinamica che tende a descrivere quanto accaduto secondo una logica semplicistica che ricorda le rivalità calcistiche. Ma ridurre il conflitto arabo-israeliano a un “io sto con Israele” o “io sto coi palestinesi” è uno sciocco esercizio di sintesi. Promuovere ragionevolmente pace e convivenza, del resto, è rischioso. Chi ci ha provato, ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di tale audacia. Nel 1981, tre anni dopo gli accordi di Camp David, l’allora presidente egiziano Al Sadat venne ucciso dai terroristi della Jihad Islamica. La sua colpa: aver siglato un trattato di pace con Israele in cui riconosceva (primo paese arabo a farlo) la legittimità dell’esistenza dello stato ebreo. Dopo gli accordi di Oslo del 1993, in cui per la prima volta israeliani e palestinesi si riconobbero come legittimi interlocutori, un estremista israeliano uccise il presidente Rabin, punendolo per l’accordo avviato con Arafat grazie al quale cedeva parte della Cisgiordania e riconosceva la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese.
ILLUSIONI Ci sono poi casi meno noti, di persone che hanno perso la vita cercando di incoraggiare la convivenza tra i due popoli in modo semplice, quasi anonimo. Juliano Mer-Khamis è una di queste persone. Attore e regista arabo israeliano, che si definiva «cento per cento palestinese e cento per cento ebreo», aveva fondato il Freedom Theatre proprio nel campo profughi di Jenin. Lì fu ucciso il 4 aprile 2011 da un militante di Hamas. Da queste parti chi promuove l’illusione di due stati in armonia tra loro non ha vita facile. Ciò che impera è la logica della cancellazione.
Matteo Re (docente dell’Università di Madrid)