I primi cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca hanno confermato una caratteristica che già era emersa in campagna elettorale: la netta distanza tra fondo e forma. Alcune delle sue idee, come la necessità di riequilibrare rapporti economici squilibrati, avrebbero potuto avere una certa legittimità.
Tuttavia, il modo in cui sono state presentate ha provocato più danni che benefici. Un esempio lampante è quello dei dazi. Trump ha introdotto la questione con toni offensivi, mettendo sullo stesso piano alleati storici come l’Europa e rivali sistemici come la Cina. L’Unione Europea è stata descritta come un progetto nato per ostacolare l’economia americana: un’accusa che ha alienato anche i partner più fedeli. In un mondo globalizzato, l’isolazionismo non è una strada percorribile senza pagarne un prezzo. Trump non ha saputo spiegare che il suo intento era difendere meglio gli interessi americani, chiedendo agli alleati di fare altrettanto. Il risultato è stato una perdita di credibilità internazionale e l’assenza, finora, di risultati concreti sui dazi stessi, tra annunci e smentite. In Ucraina, Trump aveva promesso che una sua vittoria avrebbe portato rapidamente a una tregua. Una posizione che sottovaluta la complessità di un conflitto in cui gli Stati Uniti, come già con Biden, aiutano Kiev a difendersi, ma senza cercare la vittoria per timore delle conseguenze di una sconfitta russa.

Trump porta alle estreme conseguenze una tendenza già avviata sotto Obama: il progressivo disimpegno americano nella difesa dell’Europa, costringendola ad interrogarsi non solo sul riarmo, ma anche sulla sua disponibilità a utilizzare, se necessario, le nuove forze militari. Sul fronte mediorientale, Trump può rivendicare il mantenimento degli Accordi di Abramo, siglati durante il suo primo mandato e rimasti in vigore nonostante la crisi di Gaza. Tuttavia, la sua proposta di risolvere il conflitto con una migrazione forzata dei palestinesi mostra una pericolosa superficialità, ignorando le conseguenze che simili esodi hanno avuto in Giordania e Libano, e la fragilità politica di Paesi come l’Egitto, dove i Fratelli Musulmani — “cugini” ideologici di Hamas — sono ancora una presenza forte e poco tollerata dall’attuale governo. I primi cento giorni di Trump raccontano una presidenza energica, ma caotica, dove la mancanza di strategia rischia di trasformare ogni iniziativa in un boomerang.
Matteo Re, docente Università di Madrid