«Mi chiamo Deaver, Jeff Deaver. Per un anno, dopo aver pubblicato “Carta bianca”, un’avventura di James Bond, mi sono presentato così». Parola di Jeffery Deaver, penultimo ospite della rassegna letteraria domenica pomeriggio. Al suo attivo lo scrittore americano ha una cinquantina di libri, con protagonisti come il criminologo Lincoln Rhyme e l’investigatore Colter Shaw, specializzato in persone scomparse. Proprio Shaw è al centro del libro appena uscito da Rizzoli, “Tempo di caccia”. «Colter Shaw – ha spiegato Deaver, rispondendo alle domande del giallista Luca Crovi di fronte a un pubblico numerosissimo, con la traduzione dell’amico Seba Pezzani – scala montagne, corre su moto da cross, spara con destrezza: insomma fa tutto quello che io non so fare».
RICORDO DI FALETTI Deaver suona la chitarra e canta in alcuni locali, dove a volte viene scambiato per l’amico Jackson Browne. E a proposito di amici, il pubblico ha tributato un lungo applauso all’indimenticato Giorgio Faletti, scomparso nel 2014: «Volevamo scrivere insieme un libro di cucina, io con ricette italiane, lui con piatti americani». Quanto uno scrittore deve nascondere per emozionare il lettore? «E’ un po’ come sbucciare una cipolla: ci sono vari strati, poi si arriva al colpo di scena finale, dove si scopre il cattivo vero. Strutturo ogni mio libro come si progetta un aereo, con una scaletta di 120 pagine, e ci metto otto mesi a finirlo: in questo modo so come si comportano i personaggi e dove collocare false piste e turbolenze, in modo che il lettore atterri in sicurezza e sopravviva al libro».
MOSTRO DI FOLIGNO Sala piena anche per Donato Carrisi, che intervistato da Alessandra Tedesco ha regalato al pubblico la lettura di tre pagine del suo ultimo romanzo, “L’educazione delle farfalle” (Longanesi), in uscita il 7 novembre. Ho iniziato a occuparmi di criminologia con una tesi su Luigi Chiatti, il “mostro di Foligno”, l’ho incontrato di persona e mi sentivo sporco ad ascoltarlo: aveva ucciso due bambini e ne era compiaciuto. Se ci pensiamo siamo gli unici esseri viventi ad essere attratti dal male. E così nel mio primo libro, “Il suggeritore”, ho cercato di indagare il lato oscuro del lettore e dello scrittore. I serial killer non sono mostri, ma ci assomigliano. Se non ci somigliassero li cattureremmo più facilmente, ma spesso ce ne dimentichiamo. Il problema è che non esistono buoni o cattivi: lo diventiamo a seconda delle circostanze che viviamo». Quanti spunti dà la cronaca a uno scrittore di gialli? «Moltissimi. Pensate che quando ero piccolo mia madre mi raccontava la storia di una donna che aveva ucciso i marito e ne aveva fatto a pezzi il corpo, per portarlo poi via in bicicletta, con vari viaggi. Questa è stata per molti bambini di Martina Franca la fiaba della buonanotte. Poi mi chiedono come sono diventato scrittore di thriller…».
Davide Zardo