Un segno dato per infiammare “del fuoco della carità divina” un mondo freddo d’amore. Sono affascinanti e al tempo stesso cariche di realismo le parole che la liturgia tradizionale usa nella messa propria dell’Impressione delle Stimmate di san Francesco. Un significato di solito non immediatamente attribuito a questi “segni misteriosi” che attraggono e fanno interrogare da centinaia di anni storici ed esperti, mentre per i fedeli di oggi e di ieri continuano ad essere un’assodata verità, data a conferma della santità del Poverello di Assisi, un vero innamorato del Signore Crocifisso.
QUEL DOLORE E’ la fine dell’estate del 1224, un periodo particolarmente duro per frate Francesco che, dopo l’entusiasmo iniziale della sequela di “Madonna Povertà” (Onorio III aveva riconosciuto l’Ordine solo un anno prima), trovava all’interno dei suoi discepoli divisione e tentativi di ammorbidimento della Regola e dell’ideale di vivere il Vangelo “sine glossa”. Desideroso di silenzio e di rivedere la propria risposta alla chiamata del Maestro, egli si ritira sul monte de La Verna nel Casentino per trascorrervi un tempo di solitudine e preghiera. Le parole di questo dialogo con il Signore sono tradotte dai Fioretti con queste espressioni: «O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori». In risposta a questa ardente richiesta, racconta Tommaso da Celano,
gli apparve un uomo, in forma di Serafino, con le ali, librato sopra di lui, con le mani distese ed i piedi uniti, confitto ad una croce. Due ali si prolungavano sopra il capo, due si dispiegavano per volare e due coprivano tutto il corpo.
SEGNI IMPRESSI La reazione di Francesco è sorprendentemente quella di una gioia profonda nel contemplare un amore così grande che arriva a tanta sofferenza e al tempo stesso di partecipazione al dolore che l’uomo crocifisso sta vivendo. «Mentre era in questo stato di preoccupazione e di totale incertezza – continua il Celano – ecco: nelle sue mani e nei piedi cominciarono a comparire gli stessi segni dei chiodi che aveva appena visto in quel misterioso uomo crocifisso. Le sue mani e i piedi apparvero trafitti nel centro da chiodi, le cui teste erano visibili nel palmo delle mani e sul dorso dei piedi… anche il lato destro era trafitto come da un colpo di lancia, con ampia cicatrice, e spesso sanguinava». Questi segni di dolore e di amore rimarranno impressi nel suo corpo fino alla notte del 3 ottobre 1226 quando, nella chiesa di Santa Maria della Porziuncola, Francesco rende la propria anima a Dio.
OTTOCENTENARIO Il Giubileo degli ottocento anni di questo evento di grazia, richiamando l’attenzione su un dono singolare che ha segnato anche altre figure della storia della Chiesa (basti pensare al celeberrimo caso di san Pio da Pietralcina, anch’egli figlio dell’Ordine francescano) intende proprio ricollocarlo nel suo originario significato di richiamo ad una salvezza, sgorgata da un amore crocifisso e sofferente, che resta sempre vivo e aperto per ogni uomo come lo erano le piaghe dell’uomo di Dio. «L’aver Francesco ricevuto le Stimmate – scrive il monaco Thomas Merton – fu un segno divino che fra tutti i santi egli era il più somigliante a Cristo. Meglio di ogni altro era riuscito nell’opera di riprodurre nella sua vita la semplicità, la povertà e l’amore di Dio e degli uomini che caratterizzano la vita di Gesù. Conoscere semplicemente san Francesco vuol dire comprendere il Vangelo e seguirlo nel suo spirito sincero e integrale, è vivere il Vangelo in tutta la sua pienezza. San Francesco fu, come tutti i Santi devono cercare di essere, semplicemente un altro Cristo. Il Cristo risorto rivisse in modo perfetto in quel Santo, completamente posseduto e trasformato dallo Spirito della carità divina».
don Carlo Cattaneo