Osservatorio 22-03 / Tornare protagonisti

«Fin dove ci conduce un barlume di storia, Vigevano traspare come una città eminentemente sola». Sergio Biscossa, nel suo “Storia dell’industrializzazione a Vigevano” (1985) coglie una peculiarità vigevanese, ma non estende la sua riflessione anche all’interno dei confini cittadini. Un pezzo che aggiunge il Consorzio di San Crispino e Crispiniano in “Santi & Calzolai” (2001): «Ognuno si ritirò nell’orizzonte mentale della sua fabbrichetta chiuso in un individualismo […] causa prima della sconfitta storica della Vigevano calzaturiera». Insieme completano il quadro di una città che ha faticato a raccogliere sostegno e al suo interno a compattarsi per degli obiettivi comuni. Un tratto caratteriale ben messo a fuoco da Mastronardi, che infatti – al contrario di quel che si scrive da fuori – a Vigevano non legge nessuno perché non gli si perdona la capacità di cogliere questo aspetto vigevanese.

Del resto, non solo Vigevano, ma «ogni città o casa divisa contro se stessa non potrà reggere» (Mt 12, 25) ed è un monito che dovrebbe essere valido a maggior ragione oggi, quando la città e la Lomellina – in gran parte classificata come area interna – sembrano aver iniziato un cammino post-industriale più per trascinamento che per visione. Dov’erano gli industriali nel corso del consiglio comunale aperto di giovedì scorso? Forse stavano apparecchiando la tavola rotonda convocata insieme alla Provincia per il prossimo 27 marzo, ma i primi a non essersi seduti al tavolo sono stati loro e non può bastare un collegamento a distanza da parte di un rappresentante di Assolombarda. Si tratta di una componente primaria della storia di Vigevano:

In questa forzata solitudine – scriveva Biscossa – […] essa ha maturato duramente la sua vocazione manifatturiera.

Gli imprenditori sono a pieno titolo classe dirigente della città e hanno l’onore e l’onere di questo ruolo. E’ troppo semplice, in un Paese come l’Italia che ama l’antipolitica perché non conosce la Politica, scaricare solo su partiti e movimenti civici le carenze, pure marchiane.

La presenza sarebbe stata un’assunzione di leadership in un luogo che è il simbolo della vita pubblica. Anche per affermare, come è stato giustamente sottolineato, che non si può ridurre l’imprenditoria vigevanese a un’azienda, Moreschi, perché chi fa impresa in un territorio che non ha le infrastrutture adeguate ha saputo andare oltre l’età d’oro della scarpa. L’industrializzazione di Vigevano è avvenuta, nelle parole di Biscossa, «perseguendo una monoproduzione prontamente mutata nel tempo, quando la situazione storica ne decretava l’oggettiva obsolescenza, senza pericolose nostalgie per qualsiasi tradizione produttiva. La lana, nel Medio Evo, la seta, nell’età moderna, il cotone, i cappelli, le calzature, nell’epoca contemporanea, sono stati gli oggetti più appariscenti di questa ricerca per rinnovare […] una costante vocazione manifatturiera». Una visione ottimistica appena un decennio dopo la fine della “capitale della calzatura”: «Il significato storico del settore secondario vigevanese sembra essere questo: non importa tanto l’oggetto della produzione, quanto il lavorare e nel modo migliore possibile. Al limite, Vigevano potrebbe non essere più, un giorno, calzaturiera, come ha cessato di essere tessile, e riversare su qualcos’altro il suo incontenibile desiderio di produrre al massimo della capacità». Chi ci crede ancora?

Giuseppe Del Signore

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