L’intervista, Alice Scalas Bianco: «Il bisogno di raccontare storie»

Partiamo da come ha avuto origine la tua passione per la scrittura. Da dove nasce e in che modo sei riuscita a coltivarla nel corso degli anni?

«Innanzitutto, penso che chi abbia deciso di avventurarsi nel mondo della scrittura, lo abbia fatto perchè spinto da un’altra passione antecedente: quella di raccontare storie. Da bambina mi divertivo un mondo a fare questo, raccontavo storie ad alta voce, oppure le facevo recitare dai miei giocattoli. Il tutto è nato dalla passione per l’inventiva narrativa, che mi veniva di fatto naturale. Successivamente, invece, ho iniziato a prendere la cosa più seriamente. A 12 anni ho cominciato a scrivere una storia su un foglio ad anelli: l’ho fatta leggere ai miei compagni delle medie che l’hanno apprezzata, chiedendomi di proseguire la narrazione. Istintivamente, ho continuato a leggere, perché non si può scrivere senza leggere. In terza liceo, al Cairoli di Vigevano, la professoressa Maria Luisa Torlasco mi assegnava spesso e volentieri delle letture in più, fino a quando non ho instaurato un legame con lei. Dopo averle fatto leggere il mio lavoro, mi ha consigliato di spedirlo a qualche concorso e alla fine sono riuscita a vincere il premio Valerio Gentile: è stato il primo riconoscimento letterario che ho vinto. Ecco che mi sono promessa di trasformare la scrittura nella mia eventuale professione. Questo di fatto il mio trampolino di lancio».

Quali sono le caratteristiche principali che non possono mancare in chi intende cimentarsi nell’impresa di scrivere romanzi?

«In primis determinazione, perché non è un mondo facile. Spesso gli editori o magari gli amici, criticano e mettono in discussione il lavoro che si è fatto. Serve anche autocritica, quindi essere capaci e in grado di riconoscere gli aspetti in cui si deve migliorare. Per esempio io faticavo proprio a comporre dialoghi, ma per superare questa sorta di lacuna, mi sono confrontata con dei dialoghisti doc. Inoltre, bisogna essere consapevoli che non è possibile vivere unicamente scrivendo un romanzo nell’arco di tre anni. Nel mentre, bisogna fare anche altro: insegnare, presentare eventi, lavorare con gli editori. In sintesi, alla scrittura vanno affiancate altre attività. Se si vuole pubblicare, non si deve essere timidi: ci si deve mettere in gioco, si deve aver voglia di mostrare il risultato del proprio lavoro. E anche quando l’editore accetta un elaborato, potrà comunque suggerire di effettuare delle modifiche ed è a questo punto che si deve accettare un nostro lavoro non appartiene più solo a noi. Quando esce un libro, quest’ultimo oltre che della persona che l’ha scritto, è dell’editore che ci ha lavorato, di coloro che hanno preparato la copertina e così via. Pubblicare un libro non è una questione personale».

02 PP Giovani - Alice Scalas Bianco
Scalas Bianco

Sei molto giovane, ma ti sei già tolta un sacco di soddisfazioni: che emozioni hai provato quando è arrivato il momento della vittoria del Campiello Giovani?

«Ero davvero nervosa, perché quando ho saputo di essermi classificata tra i primi 25 non volevo farlo presente a nessuno, sono molto scaramantica come persona. Quando invece si è svolta la finale, e mi hanno selezionato, ho provato un’emozione enorme.E’ subentrata anche l’ansia, perchè vedendo i miei avversari, capivo che, essendo più gradi di me, potessero avere maggiore esperienza. C’era gente laureata o in procinto di iniziare la magistrale. L’ansia piano piano se n’è andata: con alcuni ragazzi ho avuto modo di instaurare un bel legame. Mi ero preparata all’eventualità che non avrei vinto: poi c’è stata l’inattesa sorpresa».

Quando hanno comunicato il mio nome, ho pianto per l’emozione prima di parlare in conferenza.

Cosa significa per te scrivere durante un periodo caratterizzato sempre più dal progresso e dallo sviluppo tecnologico?

«Non è un aspetto a cui ho mai dato particolarmente peso. Di fatto, i racconti che scrivo sono ambientati almeno 20 anni fa: il romanzo che sto scrivendo ora infatti si colloca negli Anni Ottanta, perchè volevo proprio eliminare la tecnologia. Non volevo che ci fossero i social, un contesto narrativo che ho preferito eliminare del tutto. Scrivere in quest’epoca sicuramente ha dei vantaggi, per esempio il non dover più fare tutto a mano. I computer rappresentano uno strumento che agevola particolarmente il nostro lavoro. Durante i corsi di filologia, viene proprio spiegato come cambia il rapporto con i manoscritti, il rapporto che lo scrittore ha con questi ultimi. Per quanto riguarda, invece, l’influenza che la tecnologia ha sulla mia scrittura, al momento non è un aspetto di cui mi preoccupo. Non è da escludere che questa cosa possa cambiare in futuro».

A un amante della scrittura che vorrebbe mettersi in gioco, che consigli ti sentiresti di dare?

«Leggere, perché capita che molti ragazzi che vogliono scrivere e che siano convinti di saperlo fare, non leggano. Il problema è che senza lettura, non si migliora, si rimane fermi sullo stesso livello e di fatto, ci si gioca la carriera. Leggere tanto, ma fare anche altrettanta pratica: quindi scrivere cose che magari nessuno leggerà, ma che servono come palestra e come modo per arricchire il proprio bagaglio culturale. Poi mettersi in gioco: non vedere di mal occhio i concorsi, visto che rappresentano una buona opportunità per mettersi in mostra e fari conoscere».

Il non provarci e rassegnarsi in partenza è un atteggiamento del tutto errato per chi desidera intraprendere questa strada.

Ti piace scrivere, ma allo stesso tempo viaggiare: come mai? «Mi piace molto viaggiare, tra l’altro nutro un grande amore nei confronti delle comunità indigene: mi piace studiare i loro costumi, la loro cultura. A volte scrivo dei mini racconti su di loro, accompagnati da disegnini. Adoro anche visitare posti diversi, imparare le lingue. Il romanzo che sto scrivendo ora è ambientato a Trieste, perchè quando l’ho visitata mi ha colpito davvero molto. E’ proprio la città che mi rappresenta più di tutte: mentre andavo avanti a scrivere il mio elaborato, più volte mi ci sono recata per fare ricerche, visitare il luogo. Questo viaggio è diventato parte integrante della mia stesura. Anche il viaggiare rappresenta una parte fondamentale di me e della mia persona».

Dove ti immagini tra dieci anni? «Sicuramente in qualche città del Nord Italia, a scrivere e perché no anche a insegnare. Amo la letteratura russa, francese, se potessi avere modo di insegnarle, sarebbe bellissimo. Mi piacerebbe fare il dottorato all’estero, tenere corsi di scrittura. Ma anche se dovessi rimanere a Bologna o Vigevano a scrivere, nella mia casa, sarei felice comunque. Cerco quindi di tenermi molte prospettive aperte per il mio futuro, che comunque ruotano attorno alla scrittura, alla letteratura e alla cultura».

Quale futuro vedi, invece, per il settore dell’editoria? «Non posso dare delle risposte definitive, però penso che se l’editoria non prende delle strade innovative per adattarsi alla contemporaneità, non andrà molto bene. Ma sono altrettanto certa che lo farà, anzi lo sta già facendo. Gli editori imparano, riescono a capire il mondo contemporaneo. L’editoria si sta specializzando in vari settori, si sta specializzando in molti aspetti. Siamo in un momento critico, vedremo tra trent’anni se la strada che sta percorrendo, si sarà rivelata quella corretta».

Edoardo Varese

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