L’Intervista / Rubina Rovini, “la felicità è una pappardella”

Chef professionista, brand Ambassador, executive e food consultant, concorrente MasterChef Italia e finalista MasterChef All Stars.

Ora apre a Vigevano un laboratorio. Da dove nasce questa idea, perché?

«Cinque anni fa ho sconvolto, per l’ennesima volta, la mia quotidianità, dall’essere nata e cresciuta in Toscana mi sono trasferita a Vigevano con mio figlio Vittorio. È stata una scelta voluta e programmata, ma come tutti i cambiamenti di vita, da adulti e soprattutto con i nostri figli, amplifichiamo le nostre paure. Ci siamo trasferiti per avere vicino il nostro compagno di vita, ed essere più vicina a Milano. Dalla meravigliosa Toscana, la logistica del mio lavoro mi portava spesso ad essere lontana da Vittorio per giorni, a volte settimane. Dopo aver preso confidenza con Vigevano, ho deciso di iniziare a mettere radici nel luogo che è diventato il mio nido. È stato un investimento decisamente importante da tanti punti di vista, ero abituata ormai da 12 anni a lavorare un po’ ovunque, nelle cucine di tutti i ristoranti che ho vissuto per consulenze, intere stagioni estive, formazione del personale e altro. Avevo bisogno emotivamente, personalmente e professionalmente di costruire “Radici Lab”, nel luogo che ormai è diventato il mio nido».

Quindi Radici Lab sarà aperto a noi clienti, di Vigevano e non solo?

«Beh, certo che sì! Dopo anni nei quali mi sono messa in gioco e sono anche cresciuta, grazie a sassolini sui quali sono inciampata, o che si sono messi nelle mie scarpe facendomi male per un po’, ho costruito Radici Lab come luogo di condivisione, la tavola mette d’accordo anche persone che parlando di qualsiasi altro argomento sarebbero lontanissime. Una delle parti che umanamente mi ha dato moltissimo, negli anni, sono stati i corsi di cucina amatoriale. Ho visto persone appassionarsi a piatti molto lontani dalle loro origini, condividere ricette e argomentare, parlando di piatti e storie intorno al cibo, trovando un punto d’incontro in un ricordo lasciato da una nonna, un profumo o un ingrediente indimenticabile. Per questo, oltre a utilizzarlo come laboratorio nel quale farò il mio lavoro di consulenza, ho programmato corsi di cucina amatoriale, che non hanno bisogno di nessuna preparazione da parte dei partecipanti, ma solo abbigliamento comodo e tanta voglia di sporcare le mani, imparando ricette e condividendo ciò che ruota intorno alla tavola».

Cosa l’ha spinta a lasciare la Toscana, un lavoro e una carriera in banca e affrontare un progetto imprenditoriale?

«Come ho accennato ho stravolto la mia vita più di una volta, uno dei grandi cambiamenti è stato appunto professionale, da responsabile ufficio titoli in un istituto bancario, a chef. Secondo gli studi fatti e i consigli ricevuti dalla famiglia avevo un percorso scritto, passo dopo passo, e che mi aveva portata ad avere ruoli ben definiti dal punto di vista personale e professionale, con una carriera in banca e molto altro. Ma io non ero felice. Dopo tante domande, un periodo molto lungo nel quale mi misi in discussione, cercai razionalmente di costruirmi delle alternative, prima che potesse essere troppo tardi. Perciò abbandonai a 30 anni la banca, parlando sinceramente con il direttore del personale, mi iscrissi a scuola con i ragazzini e tornai con lo zaino a prendere il treno ogni mattina, per diventare inizialmente cuoca di base. Durante il mio percorso di studi, quando ancora non avevo avuto esperienze, mi candidai a MasterChef ed iniziai il mio percorso televisivo».

Quali sono le conquiste professionali che l’hanno maggiormente gratificata?

«Devo dire di averne fatte molte, che mi sono capitate dico sempre, casualmente, ma alcuni mi dicono siano stati frutto di grandi sacrifici. Ho scritto due libri, l’ultimo un romanzo Sperling&Kupfer, che presto presenterò anche a Vigevano. Ho lavorato molto con la grande squadra di Antonino Cannavacciuolo, che per me è come se fosse una magia o un sogno che ho vissuto ad occhi aperti. Ho lavorato in un carcere di massima sicurezza, costruendo una squadra e vedendola soddisfatta dell’evento, nel quale sono entrati in contatto con persone libere. Ci sono state tante esperienze che devo dire mi hanno lasciato emozioni immense, umanamente e professionalmente. Ma resterò curiosa ed affamata di crescita, di emozioni, di esperienze nel mio mondo della tavola».

Cosa c’è nel suo futuro?

«Quando avrò voglia di riposarmi, in senso ironico ma reale, aprirò il mio ristorante».

Cosa si sente di dire, consigliare a chi vorrebbe lanciarsi in un’impresa come la sua?

«Non abbiate paura di “svestirvi”, tornando alla base di una gerarchia professionale o lasciando per sempre un’immagine che gli altri hanno di voi, ma siate sinceri con voi stessi. Cercate la felicità, accompagnata da spalle solide e tanta voglia di crescere, lavorando duro».

Ha realizzato molti progetti… E i sogni? Quali sono rimasti nel cassetto?

«Mi piacerebbe molto costruire, anche televisivamente, i luoghi, i profumi, i piatti e le emozioni che accompagnano e costituiscono le nostre radici della tavola. Potremmo renderci conto che, l’immagine molto diversa di due persone, verrebbe abbattuta dalla condivisione emotiva di piatti semplicissimi».

La più grande lezione di cucina che ha avuto…

«Da allieva ho avuto tantissime grandi lezioni, che ancora ricordo per essere stati insegnamenti personali e professionali. Uno dei ricordi che spesso menziono, durante i miei corsi da docente, è un grande grazie alla mia prima docente all’epoca del corso base, per poter entrare in cucina come aiuto cuoco. Vengo da un passato nella danza classica professionale, (sono stata per 16 anni una ballerina classica professionista) ero pertanto abituata ad una disciplina rigida e una buona padronanza del mio corpo muovendomi, anche in cucina, in modo preciso. La Chef evidentemente aveva notato anche le mie grandi aspettative personali, il fatto che facessi fatica ad accettare fallimenti, in cucina momenti di vita quotidiana. Alla fine di una delle lezioni, dopo aver pulito la cucina e sistemato tutto, mi mise di fronte una boule di metallo, forchetta, uova e olio, dicendomi: “Rubi mi fai una maionese che mi serve dopo, tanto ci metti un attimo… dopo puoi andare”. Fu uno dei momenti apparentemente semplici tecnicamente, ma complessi per la mia parte emotiva, perché impazzì slegandosi per almeno sei volte, prima di poterla consegnare alla Chef. Lei mi guardò con un sorriso dicendomi: “Rubi ricordati sempre, in cucina il cibo ti sente”. Nella sua semplicità fu un grande insegnamento, che mi portò anche a capire che ogni piatto che cuciniamo regala a chi mangia una parte di noi, nel bene e nel male».

Radici Lab, Rubina Rovini

Gli aggettivi che meglio descrivono il suo modo di fare cucina…

«Definirei la mia cucina aggregante, disciplinata, semplice, confortante, creativa. Sono aggettivi che presi singolarmente sembrano l’uno il contrario dell’altro, in realtà sono passaggi che ho ritrovato, uno dopo l’altro negli anni di esperienza. Dico sempre “Assaggiate tutto!”. Dopo tante esperienze ho capito che, al di fuori delle mode del momento, ci sono sapori, odori, gusti confortanti, rassicuranti, che ognuno di noi, inconsapevolmente, vuole trovare nei piatti, per risvegliare ricordi e vivere la tavola nel modo più giusto».

Nella storia della cucina chi ritiene sia stato il più grande maestro in assoluto a livello mondiale?

«Personalmente vedo in Antonino Cannavacciuolo un imprenditore, Chef pluristellato ed una persona che è stata in grado di costruire qualcosa di grande, solido, tecnicamente e imprenditorialmente meraviglioso, ma che non ha mai perso di vista l’aspetto umano, gratificante e stimolante per ognuno dei ragazzi che sono cresciuti da lui e con lui».

Se fosse un piatto quale sarebbe?

«Una domanda che mi è stata fatta spesso, sulla quale devo sempre fare una sorta di viaggio personale… Direi che in questo momento di vita mi sento molto una pasta fresca al ragù. Una pasta piuttosto spessa, come una pappardella, ruvida all’apparenza ma in realtà morbida e avvolgente, che assorbe tutto il gusto robusto e intenso del ragù. Per arrivare a quel sapore ha dovuto “borbottare” in pentola, a fuoco basso ma costante, per un minimo di 6 ore, con odori e sapori delle radici, amplificati dall’abbondante grasso di carne sottovalutata perché parte dei tagli poveri come capocollo, pancia, muscolo. Ma alla fine rende felici».

Isabella Giardini

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