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Giubileo, Programma pastorale, giovani, sanità, un nuovo modello socio-economico per Vigevano e la Lomellina. Sono i temi sul tavolo del vescovo di Vigevano, monsignor Maurizio Gervasoni, alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva. Si entra nel vivo del Programma pastorale per il biennio 2024-26, dedicato al socio-politico. Nel presentare le linee essenziali ha posto l’attenzione su tre parole chiave quali partecipazione, solidarietà e misericordia. Oggi qual è il ruolo della testimonianza cristiana nell’ambito della vita civile?
«Il Programma pastorale si assume il compito di far presente alle persone che la dimensione della vita civile deve essere illuminata dalla carità come testimonianza del proprio credo, della condivisione dell’amore di Dio in Cristo che anima ogni cristiano. La preoccupazione per la vita civile da un lato è la preoccupazione per le condizioni di vita personali e degli altri e del mondo senza le quali l’uomo non vive, un atteggiamento di responsabilità, dall’altro lato fa in modo che la testimonianza della fede non si riduca a una pura pratica religiosa, ma diventi testimonianza. Per farlo la comunità cristiana deve interrogarsi sulle condizioni in cui la relazione avviene e sulle modalità con cui la coerenza del Vangelo si attua nella vita personale e comunitaria. La distinzione personale e comunitaria è molto importante perché le dinamiche personali non sono coincidenti con quelle comunitarie».
La dimensione sociale dell’identità personale illuminata dalla fede è il compito della testimonianza cristiana.
Di fatto la Diocesi procede in sintonia con l’ultima Settimana Sociale dei Cattolici, che si è svolta a Trieste in luglio e alla quale ha partecipato: quali sono gli spunti più significativi emersi?
«Il tema della partecipazione responsabile come fondamento vero della democrazia è in coerenza con le linee del Programma pastorale. La partecipazione rinvia alla centralità della dimensione morale, non della dimensione solo di efficienza e di funzionalità che spesso invece oggi si ritiene predominante in ambito democratico, sociale e civile. L’aver riportato alla responsabilità personale e collettiva il compito di fondazione della partecipazione democratica direi che è stato un gesto profetico. Nella Settimana si è poi approfondito l’insieme delle possibilità di costruzione di forme partecipative, a metà tra la partecipazione politica propriamente detta, sociale e personale, proprio per sottolineare questa volontà di costruire insieme la comunità e quindi la responsabilità. Qui secondo me alcune precisazioni in più andavano fatte. Tuttavia è stata significativa la presentazione di esperienze di vita sul territorio, per capire che tanti problemi politici, per esempio le migrazioni, il carcere, l’economia che fatica, la riforma sanitaria, possono essere affrontati con il contributo di ciascuno attraverso formule di condivisione partecipativa per il bene della collettività».
L’anno scorso ha ricordato la definizione di una parte del territorio diocesano come “area interna” sollecitando «azioni che vanno compiute pure a livello pastorale». Quali sono gli ambiti d’intervento prioritari?
«Il Programma coglie questa priorità, certo si tiene sulla linea della riappropriazione spirituale e si compone come il tentativo di dare autenticità alla testimonianza cristiana, non tanto dare efficienza all’azione sociale. Non voglio ridurre l’importanza di questo secondo aspetto, ma mi sembra che il compito principale in questo momento per la nostra comunità sia quello di recuperare l’autenticità cristiana, che mi sembra non sia stata sufficientemente presa in considerazione nel recente passato».
Lei è delegato della Conferenza episcopale lombarda per socio-politico, sanità e giovani. Il territorio, come gran parte d’Italia, vive la crescente pressione sul sistema sanitario (tempi d’attesa, carenze di personale, aumento della spesa sanitaria a carico dei cittadini). Qual è la prospettiva con cui la Cel guarda al fenomeno?
«Dal punto di vista della Chiesa il problema più importante è la necessità di rimettere al centro dell’attenzione pastorale il prendersi cura delle persone, sia quelle malate sia quelle che curano i malati sia le comunità che si dovrebbero prender cura di entrambe. La cura spirituale delle persone malate interseca la multi-appartenenza religiosa, quindi l’impostazione precedente del cappellano cattolico nelle strutture sanitarie, con l’attenzione prevalente alla cura sacramentale, evidentemente non può più essere intesa come sufficiente. Da un lato abbiamo sempre meno preti e meno cappellani, dall’altro i malati non chiedono quel tipo di prestazione, tuttavia hanno grandi bisogni e grandi carenze dal punto di vista spirituale del senso della vita e del modo in cui affrontare la sofferenza. E’ uno dei luoghi importanti nella testimonianza della comunità cristiana, per cui non è un compito da delegare a specialisti della spiritualità, ma che deve attraversare la responsabilità di ognuno che fa parte della comunità cristiana e sanitaria».
In secondo luogo ci sono gli aspetti sociali e politici, che hanno a che fare col significato e la praticabilità dell’universalità del Sistema sanitario nazionale, un tema ampio che non può essere esaurito in poche parole.
«Una terza cosa è relativa alle questioni legate alle condizioni generali della vita, per cui cronicità, lungodegenza, allungamento della vita, spostamento della questione sanitaria alla dimensione più “estetica”, portano a dire che i problemi legati al tema della vita come tale, quindi la genetica e il fine vita, diventano luoghi forti di testimonianza del senso e questo la Chiesa deve assumerlo in maniera forte perché non può interpretare questa cosa come aggiustamento politico, ma come un luogo di provocazione missionaria evangelica».
Ha dedicato grande attenzione ai giovani. Le visite ai Grest, il percorso “Giovani e Vescovo”, il rinnovamento che ha ispirato enti e organi connessi alla Diocesi. Un anno fa aveva detto «gli adulti e le persone più anziane lascino spazio ai giovani per fare queste esperienze e per avere voce nella vita effettiva della comunità». A cosa è legata questa sensibilità?
«Nasce dalla considerazione che viene dalla mia età. Mi vien da pensare quello che ho fatto da giovane io, che mi ha fatto crescere, che mi ha dato certezza e che mi ha corretto, che mi ha permesso di avere anche dei criteri di riferimento operativo oltre che personale. La maggior parte di questi orientamenti viene dal fatto che mi è stata data la possibilità di agire nel campo della vita effettiva, non in una specie di limbo o di accademia, una specie di teatrino in attesa di vivere. I giovani devono essere messi nella condizione di vivere la loro vita nella vita, nella vita degli adulti, nella società, nella Chiesa, nel confronto con la realtà. Insomma, uscire dal nido è una delle condizioni per crescere, tener sempre nel nido, pur progettato da architetti e ingegneri, no, non aiuta a crescere veramente. La seconda cosa è che rilevo una grande presenza di situazioni di disagio adolescenziale, che a mio avviso non possono trovare soluzione se non in un coinvolgimento effettivo nella vita che sia in grado di attirare pienamente l’attenzione dei giovani».
La terza cosa, che comporta grandi riflessioni anche a livello politico, è che l’organizzazione della società deve chiedere una riformulazione complessiva.
In quale direzione dovrebbe compiersi questa riformulazione della società?
«Deve permettere ai giovani di introdurre la mobilità sociale in maniera più significativa, alle persone adulte di rimodulare la loro presenza, concedendo anche spazi ai giovani in modo significativo, e di ripensare l’età della vecchiaia in modo diverso. Il modello culturale sottostante è inadeguato al tempo che viviamo. Avere quattro generazioni coesistenti non è mai successo nell’umanità, comporta l’accesso a grandi risorse economiche e sociali e quindi introduce meccanismi di selezione, voluti e non, molto preoccupanti».
Il 2025 sarà l’anno del Giubileo, per il quale è stato scelto il motto “Pellegrini nella speranza”. Come lo vivrà la Diocesi?
«Appunto come “pellegrina nella speranza”. Il compito principale del Giubileo non è organizzare viaggi a Roma, che pur organizzeremo, ma mettere le persone nella condizione di vivere lo spirito giubilare, cioè di vivere la speranza come atteggiamento spirituale che trasforma la vita in un pellegrinaggio. Le iniziative andranno verso il recupero di spiritualità del senso della vita e questo lo legheremo all’atteggiamento legato all’introspezione personale, al cammino di conversione personale, alla facilitazione di accesso ai sacramenti, primo tra tutti la Penitenza, ma poi anche attraverso la condivisione di situazioni che rendono un po’ più difficile la speranza, ma che sono anche quelle che la suscitano. Fragilità, difficoltà, disperazione, peccato come luoghi da prendere in considerazione con l’atteggiamento della speranza. E infine il desiderio di comunione che viene da una effettiva riappacificazione con il Signore e con gli altri. Questi saranno i temi su cui insisteremo, privilegiando alcuni luoghi per vivere le celebrazioni giubilari, proponendo alcuni comportamenti di vicinanza a situazioni di difficoltà che prenderemo in considerazione e sollecitando la creatività delle persone, dei gruppi, delle parrocchie, perché propongano loro stessi iniziative, senza aspettare che sia la Diocesi o il Vescovo a farlo».
Quali sono invece le sfide che attendono Vigevano e la Lomellina?
«Mi sembra che un primo punto sia risolvere la questione della compresenza di tre comunità culturalmente “autonome” – Pavese, Oltrepò, Lomellina – che insistono sulla stessa provincia. Seconda attenzione è ripensare il modello socio economico della Lomellina, perché sennò porta sempre di più alla accentuazione degli elementi negativi e non invece il recupero di quelli positivi. Credo che una revisione del tessuto sociale, delle interazioni sociali e culturali sia una priorità importante che la Lomellina non potrà eludere. Infine, dal punto di vista pastorale, vedo nella carenza vocazionale il venir meno di un tessuto spirituale che è in grado di dare anche forza e coraggio a questo territorio. Dobbiamo recuperare la voglia di vivere, la voglia di fare il bene, qualcuno che dedichi la vita alla Comunità perché faccia queste cose. Queste sono le vocazioni; ma anche la stessa vita matrimoniale, pensiamo al tema della denatalità, il quale segnala che generare la vita, educare, sono attività secondarie. Questo francamente è un atteggiamento che con difficoltà riesco a riferire all’atteggiamento evangelico».
Giuseppe Del Signore