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2Isabella Cargnoni: «si vince superando i propri limiti»

isabella cargnoni
Isabella Cargnoni

Nel mondo della scherma emerge la figura della vigevanese Isabella Cargnoni, un’atleta che ha saputo lasciare un’impronta sulle pedane internazionali. Nata il 9 aprile 1977, Isabella ha trovato nella Pro Novara Scherma la sua casa sportiva. La sua dedizione e il suo talento l’hanno portata a dominare la scena Master, conquistando vittorie prestigiose e rappresentando con orgoglio i colori della sua società.

«Ho scelto la scherma perché piaceva al mio papà Lucio e ho iniziato a praticarla con i due fratelli Alessandro e Guido. Mi sono appassionata a questo sport e nel 2022, dopo aver vinto gli Europei Master, ho smesso di gareggiare e oggi insegno la scherma ai bambini e ai giovani. Il papà è il presidente della società da più di 30 anni, e mio fratello Guido con Alice, mia cognata, sono maestri come me. Insomma, è uno sport di famiglia, che prosegue anche con le giovani generazioni: mia figlia Sara è una giovane promessa e mio nipote Angelo è un bravissimo schermidore». Che apporto ritieni possano dare le donne al mondo sportivo? «Un esempio di determinazione e grinta. Le mie schermitrici sanno che non devono mai mollare anche con le avversarie più difficili, e quando arriva la sconfitta, senza vergogna piangono e accettano le loro fragilità. Alla fine dell’assalto si stringe la mano a chi ci ha battute e si ritorna a lavorare per migliorare».

Come riesci a conciliare sport, famiglia e lavoro? «Nel mio caso è facile perché gran parte della famiglia è coinvolta in questa stupenda passione. In ogni caso, lo sport è qualcosa che arricchisce e non toglie niente al tempo e all’amore che una donna può dedicare ai suoi cari». Cosa provi quando ottieni una vittoria? «Vincere ti fa sentire la felicità, per me la vittoria è meglio di ogni droga o di qualsiasi altro tipo di “sballo”, tuttavia significa non solo salire sul gradino più alto: ai miei allievi dico sempre che si vince anche superando i propri limiti e le proprie paure cercando di andare sempre oltre, mettendocela tutta». 

3Sabrina Biscaldi: «in polizia ci vuole anche l’empatia»

sabrina biscaldi
Sabrina Biscaldi

Essere donna e svolgere un lavoro che per anni è stato un’egemonia maschile. É quello che fa ogni giorno il vicecommissario Sabrina Biscaldi, comandante della polizia locale di Mede.

«A soli 20 anni – racconta – mi sono inserita nel comando come impiegata amministrativa, e devo dire d’essere stata accolta in un ambiente inclusivo e stimolante, al punto che mi ha attirato molto l’aspetto operativo. Mio padre, che per me è un punto di riferimento importante, mi ha incoraggiato; così quando un collega è andato in pensione ho fatto un concorso interno diventando agente, poi col tempo mi sono laureata e da qualche anno dirigo il comando». In questo lavoro le donne per ottenere lo stesso risultato degli uomini devono faticare il doppio? «È senza dubbio un percorso impegnativo, perché ci si trova a gestire anche la famiglia: io ad esempio ho due figli, ma insieme a tanto sacrificio c’è sempre stata la volontà di raggiungere l’obiettivo. All’inizio ho trovato un po’ di diffidenza e mi sono sentita sotto esame, ma poi ho capito che nei confronti delle donne con incarichi di responsabilità può succedere». Che contributo può dare la sensibilità femminile in un lavoro che comporta una dose di rischio?

«Innanzitutto è importante la collaborazione tra le forze dell’ordine, cosa che ho riscontrato con la comandante dei carabinieri di Mede, il maresciallo Gaia Confalonieri. Poi molto dipende dall’atteggiamento dell’operatore, che in certi casi deve capire con chi si sta rapportando, per instaurare un dialogo. Da questo punto di vista credo che noi donne siamo avvantaggiate, perché probabilmente rispetto agli uomini possediamo un’empatia maggiore, che ci aiuta a relazionarci con situazioni delicate riguardanti soprattutto minori e donne maltrattate. E proprio a queste donne vorrei dire di non sentirsi sole e di non aver paura di denunciare i persecutori, perché verranno prese in carico da una rete di associazioni che forniranno loro supporto giuridico, economico, lavorativo». 

4Cinzia Andena: «gioia di vivere anche nella fragilità»

cinzia andena
Cinzia Andena

Dalla cura degli animali a quella delle persone, non solo come lavoro. Cinzia Andena, di Mortara, è la responsabile dei volontari che nell’associazione “Amici delle cure palliative Mariuccia e Giovanni Manera” prestano sollievo ai ricoverati nell’hospice del San Martino di Mede. Un reparto delicato e impegnativo, in cui i pazienti sono all’ultimo stadio della malattia, che può essere oncologica o di altro tipo, ma sempre molto grave.

Come mai proprio le cure palliative? «Ho sempre voluto fare volontariato, fin da ragazza. – racconta Cinzia – Mi piace capire in cosa posso essere utile. Prima ero tra i volontari dell’ospedale di Mortara, ma col Covid si è fermato tutto. A Mede l’unico reparto in cui si può entrare per aiutare i pazienti è quello delle cure palliative. L’associazione ha aperto un corso tre anni fa e mi sono iscritta. È un ambiente che non somiglia a un ospedale, con locali luminosi, grandi quadri alle pareti, una piccola biblioteca. In un momento in cui si muore per le cause più svariate, e quando meno ce lo si aspetta, la vita sembra perdere valore. Operare in un reparto come questo, invece, aiuta a riscoprire la gioia di vivere, a volte anche nelle situazioni più fragili».

Cinzia ha lavorato 15 anni come veterinaria, ma questo non le ha impedito di approfondire i rapporti con gli esseri umani: «A un certo punto ho fatto una scelta e ho smesso di lavorare, per motivi familiari, e ho ripreso dopo 11 anni, cambiando occupazione. Adesso insegno in un centro di formazione professionale e mi occupo di ragazzi con varie problematiche. Anche quando curavo gli animali, ho sempre lavorato incontrando le persone». Perché nel volontariato di prossimità le donne sono più numerose? Anche i volontari del reparto di cure palliative a Mede lo dimostrano, con 9 donne e 2 soli uomini: «Non sono propriamente femminista, ma credo molto nella forza delle donne, e nella loro sensibilità. Probabilmente abbiamo più tenuta di fronte a un maggior impatto emotivo».

5Elena Fossa: «la fede è stata il motore della mia vita»

Elena Fossa
Elena Fossa

«Come donna e mamma, sono assolutamente convinta che nella vita ciò che ci accade non è mai fine a se stesso». Brillano gli occhi ad Elena Fossa, vigevanese divenuta famosa in tutto il mondo per la storia che l’ha vista protagonista, insieme al marito Maurizio e al figlio Francesco Maria.

Per me la fede è stata il motore della mia vita – racconta – , anche quando sono arrabbiata con Lui, anche quando non capisco, quando mi accadono cose che mi fanno soffrire, quando perdo persone a me care.

E in effetti non si spiegherebbe fuori da questa prospettiva il coraggio di una donna, di una madre che nel momento più bello della sua vita, quello in cui dà alla luce il proprio bambino, riceve la più terribile e agghiacciante delle notizie, quella della malattia del neonato, una patologia particolarmente grave legata ad una intolleranza alimentare, accompagnata da una sentenza ancora più dura: poco tempo di vita per la creatura, non più di un anno. «Nell’istante in cui ti dicono che la vita di tuo figlio non sarà lunga, che non ci sono speranze per una guarigione, vieni catapultata in un mondo fatto di precarietà, desolazione, immensa sofferenza. Il tuo mondo è concentrato in quel figlio che diventa l’unica cosa per cui vivi». Ed è proprio in questo sconvolgimento che la certezza della presenza del Signore diventa per Elena l’unico appiglio al quale aggrapparsi per «vedere un Dio con cui poter litigare, piangere , disperarmi, ma che mai, davvero mai, mi ha lasciato sola». Una fiducia che culmina in una guarigione miracolosa, riconosciuta dalla Chiesa e che ha portato alla beatificazione di colei che ne è stata il tramite, Madre Speranza, fondatrice del santuario di Collevalenza. Un evento di grazia che porta Elena e suo marito a una genitorialità più ampia, attraverso l’apertura all’affido di bambini con gravi disabilità, per trasformare la gratitudine per il dono ricevuto in un segno concreto di una Misericordia che diventa abbraccio materno verso chi è più fragile.

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