Togli un posto a tavola, che c’è un familiare in meno.
A Vigevano e in Lomellina le famiglie si restringono, per l’esattezza nella città ducale sono passate da 2.27 componenti a 2.19 in vent’anni anni ovvero -0.08, uno scarto che corrisponde a un -3.3%.
La situazione è simile a quella del resto d’Italia, poiché l’Istat rileva che nella penisola la dimensione media dei nuclei familiari è di 2.3 persone e di 2.2 nel Nord-ovest, cifra a cui di fatto Vigevano è allineata. «La tendenza alla semplificazione delle strutture familiari – scrive l’Istituto nell’Annuario statistico 2022 – che ha interessato l’Italia negli ultimi venti anni è ormai diventata una condizione strutturale»
il numero di famiglie è progressivamente aumentato e a ciò è corrisposta una progressiva riduzione della dimensione familiare, con un aumento delle famiglie unipersonali e una contrazione di quelle numerose
A inizio millennio la media era 2.6, la flessione (-0.3) è stata più ampia a livello nazionale, con un -11.5% complessivo.
BELPAESE Lo scivolamento, per quanto possa sembrare lento, sta mutando la società italiana nella sua dimensione essenziale, perché la famiglia non è solo il luogo della socialità primaria, ma anche un’erogatrice di “servizi” che sono più difficili da reperire al di fuori o comporterebbero una spesa maggiore (si pensi all’assistenza a bambini e anziani in uno stato che non garantisce un numero di posti sufficiente in asili nido e case di riposo). Oggi un terzo dei nuclei (il 33.2%, nel Nord-ovest si sale al 35.5%) è formato da una persona sola, mentre nel 2002 erano poco meno di un quarto, una scalata che ha portato a superare le coppie con figli, pari al 32.5%, così come le coppie senza figli (19.9%) e gli ambiti monogenitoriali (10.7%). E’ un effetto della «evoluzione demografica italiana», che nel Rapporto 2022 dell’Istat si conferma «caratterizzata da una persistente bassa natalità e da una longevità sempre più marcata», col risultato di determinare un vero e proprio
“debito demografico” nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza
Il passaggio nella fase della vita adulta delle generazioni successive a quella del “Baby boom” – già in partenza meno numerose – «si traduce, a parità di propensione a sposarsi e avere figli, in un calo del numero assoluto di nozze e di nascite» in gran parte dovuto a riduzione della popolazione femminile tra 15 e 49 anni e diminuzione della fecondità (1.25 figli per donna), correlata all’età più alta in cui le donne hanno il primo figlio (31.4 anni).
IN LOCO Se questa è la situazione generale, a Vigevano la flessione è stata minore per via della presenza di famiglie straniere o con almeno uno straniero, che sono il 27.9% del totale, una quota quadruplicata rispetto al 2002, quando erano il 7.2%. A fronte di 62614 residenti, in tutto i nuclei sono 28382 a cui occorre aggiungere 145 convivenze (115 sono unioni civili), che danno appunto 2.19 componenti per gruppo familiare. Nella vita reale questo significa che la maggior parte delle case vigevanesi è abitata da persone sole o coppie senza figli – queste ultime o perché proprio non ne hanno avuti o perché sono adulti – una condizione di cui tenere conto nella programmazione delle politiche sociali cittadine, anche perché si tratta soprattutto di anziani.
OVER Il che tuttavia ha pure aspetti positivi, perché l’invecchiamento si abbina alla longevità e questo delinea «nuove potenzialità nelle condizioni di salute e nella qualità della vita e nuovi bisogni». L’Istat rileva come «di anno in anno stanno entrando nella fase anziana generazioni che hanno via via sperimentato un avanzamento in termini d’istruzione, partecipazione al mercato del lavoro e condizioni economiche» e soprattutto il primo è un elemento fondamentale nell’equazione che porta a migliori «comportamenti socio-demografici», «condizioni economiche e di salute», questo perché «un titolo di studio più elevato può garantire, durante la vita attiva, una maggiore protezione in termini occupazionali e un vantaggio retributivo più alto che si riflettono, anche durante la vita da anziano/a, in migliori condizioni economiche» e perché statisticamente si associa «a stili di vita più salutari». Fin qui gli aspetti positivi, ma occorre non dimenticare che in Italia sono circa 4.6 milioni gli anziani con moderate o gravi difficoltà nelle attività di cura della persona o nelle attività della vita domestica, che pertanto «dichiarano di aver bisogno di aiuto»: se le famiglie però sono ridotte a poco più di 2 componenti – e tra gli over65 il numero di quelle unipersonali è massimo – questo pone una sfida al sistema di welfare.
UNDER Così come la situazione che vivono i giovani, cui si chiede di fermare l’inverno demografico. Difficile riuscirci se si resta bloccati a casa fin quasi “nel mezzo del cammin di nostra vita”, senza possibilità di smarrire alcuna via.
L’Italia è da diverso tempo tra i paesi europei dove il rinvio delle tappe di transizione allo stato adulto è più accentuato e, conseguentemente, è più alta la quota di giovani di 18-34 anni che vivono con i genitori
Il fenomeno aveva registrato una diminuzione, che è stata vanificata prima dalla crisi economica del 2008 e quindi dalla pandemia, questo nonostante i diretti interessati esprimano l’intenzione di uscire dalla famiglia d’origine più di quanto non avvenisse in passato. «Nel 2020 – certifica Istat – nel nostro Paese quasi sette giovani su dieci di 18-34 anni vivono in casa con i genitori, ben al di sopra della media europea che si ferma a un giovane su due», il che a fine 2021 si traduceva in 7 milioni di under35 a casa (il 67.6%), perlopiù per ragioni esterne: «Nel corso del tempo sono cresciute le motivazioni riconducibili a necessità economiche, come la difficoltà di trovare un lavoro o un lavoro stabile, ma anche l’incapacità di sostenere le spese di un affitto o dell’acquisto di una casa. Queste sono passate dal 29% alla fine degli anni Novanta, fino al 41% nel 2016». Del resto per gli under35 si ha un «ingresso nel mondo del lavoro sempre più incerto e precario» tanto che
le nuove generazioni costituiscono, persistentemente, il segmento di popolazione più svantaggiato dal punto di vista occupazionale e ciò scoraggia il processo di indipendenza dalla famiglia di origine
SPESE Non potrebbe essere diversamente, dal momento che in Italia una famiglia spende in media 2437 euro al mese (2674 al nord), di cui il 42% per abitazione e servizi per la casa, il 19.3% per prodotti alimentari e bevande, il 9.9% per i trasporti, il 4.8% per la salute ovvero il 76% del reddito per spese di “prima necessità” (curiosità, nel XVI secolo si arrivava al 90%). Cifre che si aggiungono alle altre e delineano uno scenario di medio termine in cui la dimensione delle famiglie dovrebbe scendere ancora, da 2.3 a 2.1 componenti, con una «progressiva frammentazione» che porterebbe le coppie con figli a essere meno di un quarto del totale (24.6%) e quelle senza più di un quinto (21.6%), fino a sorpassare le prime entro il 2045, piazzandosi al secondo posto dietro quelle formate da persone sole (38.7% circa). Se l’Italia vuole tornare ad avere famiglie più numerose e più bambini sarebbe importante che ai figli di oggi desse più lavoro, più dignitoso, più stabile e più in fretta. Dopo la Grande Peste del 1348 uno dei fattori che si collegò all’incremento demografico partito nel tardo Quattrocento – necessario per permettere agli europei di colonizzare gli altri continenti e dare al mondo la forma “occidentale” che tuttora mantiene – fu l’abbassamento dell’età in cui ci si sposava. Oggi per favorirlo servirebbe una rivoluzione copernicana dell’economia italiana, storicamente caratterizzata da salari bassi; nel 2023 non si deve partire alla conquista del mondo, ma appare evidente che per conquistare la propria indipendenza e compiere scelte forti o definitive, come quella di sposarsi e di mettere al mondo dei figli, a una famiglia occorrono delle fondamenta solide. Una questione politica, non individuale.
Giuseppe Del Signore