Don Renato racconta: «La mia nuova vita dopo il Covid»

Nella prima ondata di contagi don Renato Passoni, parroco di Mede, era stato colpito dal Coronavirus. Da poco tempo è tornato a Mede, dopo sette mesi di assenza a causa del Covid, che nel frattempo ha colpito anche altri sacerdoti della diocesi.

«Lo scorso 22 marzo ho iniziato l’esperienza nella malattia del Covid-19: – racconta il sacerdote – sono stato portato all’ospedale “Clinica Beato Matteo” in Vigevano e lì ho iniziato una lunga degenza che mi ha portato a vivere e a rivivere la mia vita nei 68 giorni di ospedalizzazione. Subito ho avvertito che la salute veniva meno, mancava il fiato, la febbre era alta e mi era impossibile portare avanti le semplici realtà quotidiane della vita. Ho subito avvertito che Dio mi stava chiedendo tutto: la salute è stata minata, ciò che è semplice e facile è diventato difficile nelle realtà di ogni giorno quali respirare, parlare, alzarsi e camminare».

Purtroppo aveva contratto il virus anche l’anziana mamma di don Renato, che è deceduta.

«Il primo passo di questo cammino in salita è stato la morte di mia madre Giuseppina: qui ho avvertito ciò che alcuni miei parrocchiani avevano già vissuto cioè la perdita di una persona cara, ma ancor più l’impossibilità di poterle stare vicino, di venerare il suo corpo, vestirlo, aver la visita di parenti e di amici per ricevere la consolazione grande dell’abbraccio negli affetti e della fede. Con mia mamma ho vissuto 23 anni da sacerdote: nel giorno della mia consacrazione sacerdotale ho fatto una richiesta al Signore, di avere la possibilità di vivere con mia mamma almeno per gli anni in cui mi è stato privato l’affetto materno durante i quattordici anni di formazione in seminario ed il Signore mi stava ricompensando con il doppio di quanto richiesto, come dice nel Vangelo. E’ tremendo non poter salutare la mamma, non vederla più, non poterle dare l’ultimo bacio e soprattutto non poterla accompagnare al cimitero dopo le esequie cristiane, ma il Signore ha voluto così».

Una Pasqua di dolorosa passione, quella vissuta da don Renato:

«La seconda spoliazione in quel tutto che avevo promesso nel giorno della mia ordinazione sacerdotale mi è stata data nella notte tra il 2 e il 3 aprile quando alle 2 mi hanno prelevato dal reparto e portato in rianimazione dove sono rimasto per tre settimane: lì ho avvertito proprio la discesa negli inferi vivendo anche il tempo liturgico della settimana Santa e dell’ottava di Pasqua dove, grazie agli infermieri che scaricavano i programmi liturgici dal mio cellulare, ogni tanto potevo seguire nella liturgia delle ore e nella celebrazione della santa messa le letture e il tempo di passione del Signore. Anch’io umilmente ho provato la sofferenza del corpo, il tacere davanti al persecutore che era il virus e soprattutto l’abbandono nelle mani del Padre chiedendo al Signore di sapergli offrire tutto ciò che mi capitava, dalla privazione degli alimenti alla solitudine negli affetti, a qualche umiliazione avvertita nel dover dipendere in tutto e da tutti, a quel tempo che non passava mai quasi fosse un eterno venerdì santo; attraverso la preghiera del breviario ed i quattro rosari quotidiani, mai pregati insieme nella mia vita, cercavo di offrire la mia sofferenza non tanto nel chiedere il dono della guarigione ma nel poter offrire quel tutto che avevo promesso quel 31 maggio del 1997 sdraiato sul pavimento del Duomo».

Si arriva così alla terza spoliazione.

«Il giorno di Pasqua, il 12 aprile di quest’anno coincideva con il mio compleanno, e che compleanno: 50 anni di vita, boa miliare nella vita di ognuno. In quel giorno ho fatto una promessa al Signore: se mi avesse dato il dono del tempo e altri giorni di vita, avrei vissuto i prossimi 50 anni con più slancio, con più impegno, con più santità. Promessa? Realizzazione? Certezza della mia infedeltà e della fedeltà di Dio? Penso proprio di sì, che Dio sia più fedele di ogni uomo e anche di me stesso eppure attraverso la respirazione forzata e tutte quelle incitazioni che il personale medico mi rivolgeva ogni volta che veniva a bucare il braccio o a somministrare i medicinali necessari per poter fare reagire il mio corpo ormai allo stremo delle forze, tutto ciò mi aiutava a continuare a lottare e soprattutto a superare quel tutto che il Signore mi stava chiedendo».

Pur nel suo isolamento, don Renato non era solo:

«So che ero supportato dalla preghiera di molti attraverso innumerevoli messaggi e tante preghiere elevate al Signore, accompagnate (l’ho saputo dopo) anche da fioretti privati, da penitenze e privazioni che sono riusciti a riportarmi il 23 di aprile, giorno della festa di San Giorgio che ha vinto contro il drago, di nuovo in reparto per l’ultimo periodo della mia lotta dove innumerevoli antibiotici hanno minato l’intestino portandomi ancora a innumerevoli debolezze e lotte contro la malattia. Finalmente il 9 maggio il secondo tampone è risultato negativo e potevo gioire insieme ai medici in quella lunga battaglia che mi ha portato poi il 29 di maggio ad essere dimesso e con quella sentenza di assoluto riposo e di riabilitazione che mi hanno costretto a rimanere lontano della vita parrocchiale fino a settembre. Come ho già scritto attraverso i messaggi pubblicati su Facebook ho saputo leggere questi 68 giorni anche come tempo di grazia che il Signore ha voluto attraverso questa esperienza per farmi capire che lui è il tutto della mia vita e che quel tutto promesso nello slancio giovanile della consacrazione forse deve essere ancora realizzato in me e nella Chiesa che servo senza alcun merito ma senz’altro con la gioia di chi sa che ci si realizza pienamente nella vita solo nel servire il Signore. E lo ringrazio anche per l’esperienza sacerdotale fatta in ospedale, confessando, pregando con i medici, i fisioterapisti e gli infermieri, con i compagni di camera, a tre dei quali ho dato l’assoluzione di tutti i peccati prima della loro morte, insieme a quelli non contati in rianimazione. Esprimo la mia gratitudine a Colui che è stato la mia roccia, il Signore, ai miei familiari che hanno sofferto e temuto per me e con me nei giorni di malattia e nei giorni tremendi della morte della mamma che sono sicuro stia sorridendo al suo posto in Paradiso ed esprimo anche la mia riconoscenza verso tutti coloro che attraverso scritti, preghiere e anche con il loro silenzio sono riusciti a strappare la mia vita dalla morte e a proiettarla di nuovo nella vita della Chiesa. Facciamo esperienza di ogni tempo della nostra vita certi che Signore ci sostiene fin quando finalmente saremo con i nostri cari nella gioia del Regno di Dio che stiamo preparando quaggiù su questa terra».

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