Una vita dedicata alla montagna. Luca Colli, 55 anni, sky-runner vigevanese noto a livello internazionale per le sue imprese che lo hanno portato a scalare le vette più alte di ciascun continente, non ne vuole sapere di restare nel salotto di casa. La sua vita si snoda tra allenamenti in quota e aeroporti. Da dove è nata la sua passione per le montagne?
«Principalmente dal fatto che la mia famiglia possiede una casa ad Alagna Valsesia, dove fin da piccolo passavo molto tempo. In aggiunta, mio nonno era maresciallo degli alpini: passavo delle serate intere ad ascoltare le sue storie. Ho cominciato a fare qualche escursione con mio padre e nell’istante esatto in cui ho visto i ghiacciai in alta quota, è stato amore a prima vista. Da lì non mi sono più fermato».
L’amore per l’alta quota ha in qualche modo influenzato le sue scelte scolastiche?
«Sono passato per il liceo scientifico per poi laurearmi in architettura. Per quanto riguarda la montagna, non esiste una formazione scolastica che si possa intraprendere. Io ho imparato prima da mio nonno, poi da mio padre e infine da una guida. Successivamente ho svolto anche un corso per diventare guida io stesso».
Ha qualche hobby al di fuori delle scalate?
«Assolutamente sì. Uno su tutti è la musica: da ragazzo ho suonato la batteria in un gruppo, incidendo perfino tre dischi. Un posto speciale nel mio cuore è riservato anche alla pallacanestro. Ho giocato per circa 20 anni, soprattutto nei campionati minors, spingendomi fino alla serie D. Nonostante tutto, sono ancora un giocatore di tutto rispetto. Sono, in più, un assiduo frequentatore del palazzetto quando in campo ci sono i gialloblù. Forza Vigevano, sempre!».
Come si prepara ad una scalata?
«Ovviamente tutto dipende da quale vetta si andrà a scalare. Se vado oltre i 6000 metri, procedo facendo la preparazione atletica con gli agonisti della boxe della palestra Kbk di Vigevano, che mi danno una grande mano nel presentarmi al meglio della forma per imprese del genere. In particolare, con Davide Tucci mi preparo con delle corse di diverse ore. Per aumentare la forza, fondamentale in una scalata, mi alleno ovunque ci siano degli strumenti utili, che siano a casa o in palestra. In più, è obbligatoria almeno un’uscita alla settimana in montagna, cercando di ricreare al meglio le condizioni che andrò ad affrontare nella scalata vera e propria. Oltre alla preparazione fisica, un aspetto che spesso viene sottovalutato è quello mentale».
Scalare le vette più alte del mondo è qualcosa che ti può veramente spezzare, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Serve una preparazione a tutto tondo se non si vuole essere colti di sorpresa.
Quali sono i suoi prossimi obiettivi?
«Ho da poco fatto un viaggio in Africa per scalare il monte Kenya. Ho però gli occhi puntati su un altro obiettivo, che per me conta veramente tanto: il circuito Snow Leopard. Per chi non lo conoscesse, il circuito comprende cinque picchi sopra i 7000 metri tra Kirghizistan e Tajikistan. Istituito nel 1967 con un decreto sportivo dell’allora Urss, mirava a premiare con un distintivo onorario del Consiglio centrale gli alpinisti che fossero riusciti a scalare tutti e quattro i “settemila” dell’Unione Sovietica. E non mi sono sbagliato: quattro picchi, perché il quinto fu aggiunto soltanto nel 1989. Poco più di 600 scalatori in tutta la storia ci sono riusciti: in Italia, invece, solo una persona ha completato questa impresa. Poter entrare a far parte di questo esclusivissimo “club” sarebbe la ciliegina sulla torta della mia carriera nelle grandi altezze. Sto ancora cercando di decidere se questa sarà la mia ultima impresa o meno, perché sul mio taccuino ci sono ancora diversi nomi da segnare come “completati”».
Qualche anno fa ha scalato l’Everest. Al suo ritorno, ha tenuto uno spettacolo a Vigevano con il quale ha raccontato la sua esperienza accompagnata da foto e video. Come ha vissuto questa scalata verso il cielo?
«A livello fisico, questa scalata è un treno che ti arriva in faccia a piena velocità, la più difficoltosa che abbia mai fatto. Mi sono allenato per mesi interi a ritmi altissimi, ho studiato la storia e la conformazione della montagna… insomma, non ho tralasciato neanche un dettaglio prima di partire per questa spedizione. Un singolo errore, in quell’ambiente lì, può costare caro. La zona che mi ha messo più in difficoltà è stata, senza ombra di dubbio, la “zona della morte”, ossia dagli 8000 metri in su. Lì il livello di stress del tuo corpo dovuto al freddo, alla stanchezza, al vento e alla mancanza di ossigeno raggiunge picchi elevatissimi: cerchi solo di tenere duro e tornare indietro il prima possibile. Dopo aver raggiunto la vetta, a seguito di 55 ore di scalata, ci è stato concesso un po’ di tempo per goderci la vista e poter scattare qualche di foto di rito, rigorosamente con la sciarpa della Pallacanestro Vigevano. Tornato al campo base, a 6500 metri, pesavo 10 chili meno, per dare un’idea dello sforzo richiesto. È veramente dura, ma la soddisfazione e il panorama che ci si gode dalla vetta ripagano ogni goccia di sudore versata per arrivare fino a quei 8488 metri».
Oltre all’Everest, quali altre scalate la hanno soddisfatta di più?
«Due in particolare, che secondo me sono decisamente sottovalutate: il monte Cook, in Nuova Zelanda, ed il Denali, in Alaska. Il primo è il monte più alto della nazione, con vette che raggiungono i 3700 metri. È conosciuto anche come “Aoraki”, che nella lingua maori significa “Colui che buca le nuvole”. Il secondo, invece, è la più alta montagna non solo degli Stati Uniti, ma bensì di tutto il continente nordamericano. A livello mondiale è la terza per altezza, grazie ai suoi 6190 metri. Anche questo monte ha un significato nella lingua nativa del posto, che si può tradurre in un semplice “grande montagna”».
Queste sono due delle montagne più belle che abbia mai scalato in tutta la mia vita, mi hanno lasciato estasiato e non se ne sono più andate dal mio cuore.
E’ mai rimasto deluso da una delle sue scalate? Magari si aspettava qualcosa che non ha effettivamente trovato?
«Questo, per fortuna, no. Ogni scalata ha il proprio fascino, e ogni singola salita faceva parte di un progetto più grande. La cosa, forse, più fastidiosa era la fatica. Un esempio lampante è la situazione che si è venuta a creare dopo due mesi sul monte Everest. Ad un certo punto non ne potevo più, non vedevo l’ora di tornare a casa. Mi sono fatto forza pensando a quanto duramente mi fossi impegnato fino a quel momento tra allenamento, preparazione, studio e la scalata stessa, e sono così riuscito a concludere il viaggio. Dopo 15 giorni dal rientro a casa l’adrenalina era ancora alta, e solo in quel momento ho realizzato effettivamente cosa avessi fatto. Inutile dire che mi sono messo immediatamente a pianificare la prossima meta. Anche questo è il bello delle scalate: puoi scalare le vette più alte, ma sarai sempre emozionato come se fosse la prima volta nel preparare l’obiettivo successivo».
Tornando sul circuito dello Snow Leopard, quale sarebbe il piano d’attacco per scalare queste vette?
«L’idea sarebbe quella di, sponsor permettendo, scalare almeno due delle cinque vette dei 7.000 in 15 giorni. A ora, non abbiamo ancora date precise, ma sono convinto che si potrebbe portare al termine questo obiettivo già l’anno prossimo, altrimenti a inizio 2026. Le montagne sono suddivise nella zona dell’ex Unione Sovietica, soprattutto nell’area del Tajikistan. Bisognerà chiarire l’ordine di partenza».
Ha qualche consiglio da dare a ragazzi che si vogliono cimentare nella scalata delle vette più alte?
«Certo. Non ponetevi limiti, nessuna montagna è troppo alta per essere scalata. Prendete sempre le necessarie precauzioni, preparatevi al meglio dal punto di vista fisico e mentale ma soprattutto, ricordatevi di rispettate sempre la montagna. Ho avuto la possibilità di incontrare persone fantastiche durante queste avventure, quindi godetevi sempre il momento e condividete la gioia di esso con le persone che avete accanto».
Edoardo Zanichelli