«Il dottore sorrise e mi disse che, anche se io non li vedo, sono molti di più i bambini che guariscono rispetto a quelli che non ce la fanno». “Storie di leoni e di leonesse” (edizioni Astrolabio, collana “Narrazioni”, editing Punto & Virgola) è il racconto
di tutto l’amore e di tutta la vita che circondano un evento terribile come la malattia di un bambino
Ed è una storia vera, raccontata in prima persona da Giulia Pozzi, educatrice vigevanese classe 1989, che ripercorre quanto accaduto dal giugno del 2018, quando a suo figlio Ettore fu diagnosticato un pineoblastoma, un tumore al cervello di cui si registrano dieci casi all’anno al mondo, al marzo del 2020, prima risonanza senza la neoplasia.
Si tratta di un libro dedicato soprattutto alle mamme, le “leonesse”, ma anche a tutti quei leoni e quelle leonesse che le accompagnano, a partire dai compagni, dai genitori, per proseguire con i professionisti che s’incontrano in un percorso che è sì di dolore, ma anche di speranza, di scienza, di medicina, di fede. Scandito dalla presenza di dottori e dottoresse, competenti come quelli dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano o il dottor Pietro Gallotti direttore generale dell’istituto clinico Beato Matteo di Vigevano, di cui l’autrice riporta nomi e cognomi, dedicando alcune righe per descriverne sia la competenza sia l’umanità, e incompetenti, ma anche di altre mamme, come Marina, mamma di Nicolò, affetto da un sarcoma al collo: «Fu lei a farmi capire quanto fosse importante per il mio bambino vedere la Mamma bella, sana e sorridente», la stessa persona «sempre tirata a lucido» capace di fare «da pungiball» per
un ragazzo di diciotto anni che a benissimo la gravità della sua situazione e si arrabbia con il mondo
«Ma il mondo non lo ascolta, la Mamma ce l’ha davanti. E lei è rimasta lì, a prendersi le urla, le parole, le bestemmie».
Il testo di Pozzi, che sarà presentato sabato 1 aprile alle 11 presso palazzo Roncalli a Vigevano a cura di Cinzia Tenaccioli e il cui ricavato sarà devoluto all’associazione “Bianca Garavaglia onlus” che sostiene iniziative nel campo dei tumori pediatrici, vuole anche essere una “guida”, un appiglio da afferrare per chiunque dovesse trovarsi nella stessa situazione. Con proprio figlio che sfiorisce a causa di una chemioterapia senza la quale non avrebbe speranze, che vomita 23 volte in otto ore, che inizia a urlare disperato quando vede il catetere al centro del torace, segno materiale di una “bua” altrimenti invisibile ai suoi occhi, che fugge disperato perché non vuole festeggiare il suo compleanno. Di fronte a un “consenso informato” in cui i genitori danno il via libera a un trattamento che causerà o potrebbe causare infertilità, alopecia, leucemia tardiva, morte e che non è «morte probabile», ma «la sua miglior chance di battere questa belva».
Pozzi scrive anche a chi si trova a vivere la stessa esperienza: «Stai calma, respira, ero seduta lì prima di te. Si, è tutto vero, non è uno scherzo e nulla nei prossimi giorni, mesi o anni potrà cambiare questa giornata. Si, hai il cuore spaccato. L’hai proprio sentito rompersi in mille pezzi lo so. E ti dico anche che sarà così ogni mattina, durante il percorso che dovrete affrontare. Lo sentirai distruggersi, prendere fuoco, diventare cenere. Ma come una fenice risorgerà in cinque minuti, più malandato ma estremamente potenziato di energia». Anche grazie alla fede, che non è qualcosa che si riceve per nascita o dalla famiglia – «invidiavo mia madre per la sua profonda e cieca fede in Dio, ma io non riuscito a trovarla» – ma che si percepisce –
ho visto più il Signore nel cancro, nel percorso che abbiamo fatto, che in tutta la mia vita
e che accompagna tanto nella riconoscenza quanto nell’astio. «Mamma in questi mesi di percorso il mio rapporto con il Signore non è stato di sola preghiera e gratitudine. L’ho insultato, l’ho odiato. Ho parlato con lui, ho pianto con lui. Gli ho chiesto scusa, gli ho chiesto aiuto, l’ho ringraziato per ogni secondo in più con Ettore. Ma mai una sola volta, anche quando proprio avrei voluto vederlo solo per strozzarlo personalmente, l’ho sentito assente».
Giuseppe Del Signore