14 luglio, XV Domenica del Tempo Ordinario

Nel vangelo della scorsa domenica Gesù sentenziava che l’opera del profeta è rifiutata proprio nella sua patria; cosa risaputa in Israele, perché le vicende della maggior parte dei profeti parlano chiaro, e l’autore della lettera agli Ebrei le riassumerà così: “Alcuni esercitarono la giustizia… trassero vigore dalla loro debolezza… ma subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Altri furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra…” (11,33-40).

Nell’odierna domenica anche il profeta Amos viene cacciato via dal Tempio, perché la parola che egli proferisce è urtante verità che svela le disobbedienze e le colpe del popolo e dei suoi capi. Profeta deriva dal greco profetés, parola composta dal prefisso pro- (“al posto di”) e dal verbo femì, “parlare”, per cui profeta è chi parla al posto di qualcun altro, nel nostro caso specifico di Dio. Ma per far questo deve prima aver ascoltato: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore”, fa subito eco al profeta Amos oggi il Salmo 85. Dunque la profezia si nutre prima di tutto di silenzio e di ascolto. Il rischio è altrimenti quello di dire parole nostre, parole sterili e vane, perché troppo umane e poco divine. Ecco perché a substrato della missione ordinata da Gesù agli apostoli c’è il loro stare con lui fin dagli inizi:

“Gesù chiamò a sé quelli voleva ed essi andarono da lui; ne stabilì Dodici – che chiamò inviati –, perché stessero con lui e per inviarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,13-15). Ciò che balza agli occhi – anzi, all’ascolto – è anzitutto l’immediatezza dell’obbedienza dei discepoli nel corrispondere alla chiamata di Gesù, atteggiamento tipico di molti profeti e giusti che alla chiamata divina risposero “Eccomi!”

, equivalente a un sonoro “sì, ci sono!”. Associata a questa perentorietà incontriamo poi un’estrema povertà di mezzi a disposizione dell’attività apostolica: il “qui e ora” della vocazione profetico-missionaria richiede un’essenzialità che può spaventare, eppure tale radicalità è contenitore necessario per accogliere la potenza della Parola divina: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,7). La missione dei Dodici avrà buon esito – come leggeremo domenica prossima – proprio a causa di questa povertà. Essa fa emergere il fatto che la missione ha il suo senso non nel “conquistare anime”, ma nell’essere segno del Dio che viene attraverso ciò che appare insufficiente, sprovveduto. Dio “ci ha scelti” non per essere operativamente efficaci, ma “per essere santi e irreprensibili nella carità” (Ef 1,4).

E perché ciò avvenga è bene far memoria di una altro passo neotestamentario, dove san Paolo proclama con forza: “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono” (1Cor 1,26-28). La nostra debolezza e povertà sono dunque il vero potente mezzo da abbracciare, affinché la nostra missione “non si basi su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1Cor 2,4). Questo è il volto vero della Chiesa e delle nostre comunità. E della nostra personale vita cristiana.

don Alberto Fassoli

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