È giusto crescere i più piccoli senza le catene imposte dagli smartphone? Strumento che ormai è diventato irrinunciabile nella società odierna, sta diventando il regalo (precoce) di sempre più ragazzi, spesso giovanissimi. Uno step che in media arriva tra la scuola primaria e la secondaria di primo grado, sebbene gli esperti tendano a essere contrari. A spiegarlo il professor Marco Gui, sociologo presso l’Università Milano Bicocca e curatore del report “Eyes Up 2025”.
DISUGUAGLIANZA Lo studio osserva un fenomeno che sta sostituendo il vecchio “digital divide”, la cosiddetta disuguaglianza di iperconnessione. Se negli anni Novanta si temeva che le fasce più svantaggiate restassero escluse dal mondo digitale, oggi accade l’opposto. «Le famiglie con un background culturale più alto tendono a posticipare questo momento, ma resta una tendenza recente e ancora minoritaria – spiega Gui – I ragazzi che hanno meno guida e accompagnamento da parte degli adulti sono quindi quelli che usano di più la rete, con un utilizzo quantitativamente alto, ma povero di contenuti». Il rischio, aggiunge, è che questa iperconnessione
si traduca in minori competenze scolastiche e relazionali, con un impatto sulla mobilità sociale.
DIFFERENZE Non solo i giovani, ma anche gli adulti non sono immuni da queste conseguenze, tanto che «già molte ricerche mostrano l’attenzione frammentata e il disagio da multitasking dei soggetti più adulti», sebbene l’età evolutiva resti quella più vulnerabile. «Durante la preadolescenza gli effetti di un uso eccessivo sono più profondi e potenzialmente duraturi». Ma le differenze si osservano anche sul piano di genere. Basti pensare che «le ragazze usano di più i social e vi investono maggiormente dal punto di vista emotivo – continua il sociologo – Sono anche quelle che manifestano un uso più problematico dei media digitali e maggiori segnali di disagio legati alla salute mentale. Nei maschi invece gli effetti negativi si vedono di più sulle performance scolastiche». Tuttavia le famiglie si trovano spesso disarmate di fronte alla pressione sociale.
I genitori sanno che sarebbe meglio aspettare, ma non concedere il telefono diventa fonte di esclusione per i figli. E questo pesa molto nelle loro scelte.

EDUCAZIONE Quindi sorge spontaneo chiedersi come si può educare al digitale in modo sano? «Ci vuole una parte di protezione e una di educazione – racconta Gui – La protezione funziona meglio se condivisa. Si parla quindi di patti digitali, accordi tra famiglie dello stesso territorio per stabilire regole comuni sull’età di accesso agli smartphone e sull’uso dei social. Sul fronte educativo invece serve un’azione coordinata tra scuola e genitori. La scuola fornisce l’educazione civica digitale, ma la famiglia deve diventare il luogo dove si discutono criticamente i contenuti incontrati online». Tra questi, un punto cruciale riguarda l’uso notturno. «Il telefono va tenuto lontano durante la notte – spiega – è una protezione fondamentale, perché l’uso notturno è tra i più dannosi, per qualità del sonno, attenzione e umore».
IMPEGNO Il lavoro educativo però non può essere lasciato solo ai genitori. «Serve una comunità educante, come i pediatri, che possono avere un ruolo centrale, coinvolgendoli come figure di riferimento per accompagnare le famiglie fin dai primi anni di vita del bambino, con risultati molto positivi». E le istituzioni? «Possono e devono fare di più. A Milano il Comune ha elaborato le Raccomandazioni di Milano, un documento che definisce buone pratiche per famiglie e scuole». Ma serve anche una legge nazionale. «Sono stati depositati diversi disegni di legge, ma nessuno però è ancora arrivato in porto In tutto questo aspettiamo anche una regolamentazione più chiara a livello europeo». Nonostante i ritardi, un segnale incoraggiante c’è. «Il fatto che l’attenzione pubblica si sia finalmente accesa sul tema è già un passo avanti – conclude il sociologo – Ora bisogna trasformare questa consapevolezza in azioni concrete, capaci di aiutare genitori, scuole e ragazzi a ritrovare equilibrio nel rapporto con il digitale».
Rossana Zorzato



