Dopo tanti anni passati dietro il bancone, Il Pastaio, il vostro negozio di pasta fresca e gastronomia in via del Popolo, chiude, anzi, cede la licenza.
«Noi abbiamo iniziato il 2 gennaio del 1987, Nadia lavorava già nel negozio come commessa dal 1981. Il titolare che c’era prima di noi, Bruno Musso, mancato nel 1990 e per noi un grande punto di riferimento, apprese con piacere la proposta di rilevare l’attività. Io e Nadia eravamo fidanzati e l’idea era quella di fare qualcosa assieme, lavorare assieme, e fare quel tipo di attività. Quando l’abbiamo proposto al signor Musso ha accolto con soddisfazione la nostra idea: conosceva bene entrambi, soprattutto Daniela che lavorava lì da tempo. Per un certo periodo, come accade sempre nei cambi di gestione, c’è stato un momento di affiancamento, assieme a lui, poi abbiamo continuato da soli».
Ci racconti la vostra storia.
«Ci siamo sposati nel 1989, abbiamo due figli che hanno 32 e 30 anni. Ci lasciamo alle spalle 38 anni in negozio e in laboratorio. Dobbiamo dire che sono letteralmente volati: 38 anni sono tanti, ma se guardiamo indietro, non ci sembra vero. E’ una attività di duro sacrificio, nella quale il lavoro predominante è manuale ed è immensa la fatica che che viene fatto con le mani, il sacrificio, la passione e anche l’abnegazione. All’inizio ci hanno aiutato i nostri genitori, sia in laboratorio che in negozio: il loro contributo è stato fondamentale, hanno avuto un ruolo determinante sotto tanti punti di vista. La loro visione, il loro parere è sempre stato accolto da noi due con lo spirito di chi deve apprendere da chi ha già fatto tanta strada. Sono stati anni di grandi soddisfazioni, anche economiche. Avevamo un bel rapporto con gli avventori che si è tramandato fino alla terza generazione: la nostra clientela era abbastanza abitudinaria, avevamo clienti fissi, sapevamo già cosa volevano, e loro stessi ci chiedevano di tenere da parte una delle nostre specialità. Spesso giocavamo in anticipo: quando conosci bene il cliente e, con lui, hai un rapporto che va al di là dello scambio formale accadono queste cose.
Il rapporto con chi veniva in negozio è stato uno dei lati assolutamente positivi del nostro lavoro, in tutti questi anni: non abbiamo mai avuto problemi o contestazioni e, quando dal rapporto negoziante-cliente si sfociava in un rapporto amicale, nascevano lunghe e piacevolissime chiacchierate.
Si parlava di tutto, qualcuno si confidava, con noi: era inevitabile quando in una “relazione” subentra anche l’empatia e la fiducia si arriva a raccontare anche episodi della vita familiare… accadeva a loro, come capitava a noi. E’ normale, o forse devo dire era normale: adesso la relazione tra commerciante e cliente è diventata sempre più formale. Mi capita di entrare in un negozio e di non sentire un cenno di saluto: è la prima cosa, il biglietto da visita. Se non sai accogliere il cliente, da quello che viene sempre al nuovo arrivato o che vedi una sola volta, non sei adatto a fare questo mestiere, meglio scegliere altro. Fare il commerciante non è un lavoro che possono fare tutti: dietro al bancone occorre professionalità, cordialità, fair-play, mentre in laboratorio dedizione e programmazione. Un’attività da portare avanti non può trovarti impreparato a titubante: occorre avere sempre il controllo della situazione sapere cosa c’è, cosa manca, prevedere le azioni da fare nell’immediato e non solo».
Da quello che dice traspare un rapporto particolare con la vostra clientela.
«La nostra clientela è stata speciale: alcuni ci hanno portato anche regalini, piccole cose, ma questo dà proprio il senso del rapporto straordinario che c’era. Abbiamo avuto clienti che arrivavano da Parigi, dalla Spagna: alcuni avevano parenti qui, ma approfittavano della visita alla famiglia per fare scorte che poi portavano a casa. Per noi, sono state grandi soddisfazioni: vuol dire che quello che realizzavamo era davvero unico. Nella conduzione del negozio siamo stati aiutati da tre commesse. Adesso il negozio è stato acquistato da una coppia che lavora nel settore della ristorazione da 25 anni, hanno 50 anni: anche noi, come è accaduto con il signor Musso, li stiamo affiancando: credo che, in linea di massima proporranno i prodotti di punta, quelli che la clientela ha sempre chiesto e continuerà a chiedere. Fare questo tipo di lavoro significa anche capire quello che vuole il cliente, magari puoi accennare al prodotto nuovo ma non devi forzare, se lui chiede sempre la stessa cosa, quello devi fare, sempre: il rispetto di quello che vuole deve venire prima del proprio slancio a proporre novità».
I fiori all’occhiello della vostra produzione?
«Pasta fresca: agnolotti, ravioli di magro, tortellini, ravioli di zucca, tagliatelle, pasta al forno, crespelle e tanto altro. E poi la gastronomia: oltre agli stessi piatti cotti, la parmigiana, le melanzane con le zucchine, le polpette di carne, di verdura, oltre a tutte le verdure sia condite che ripiene. E il nostro pesto, uno dei nostri fiori all’occhiello, quello che non ha mai stancato nessuno, oggetto di scorte memorabili da parte delle clientela vigevanese e straniera. Abbiamo sempre servito famiglie del centro storico, che conoscevano le nostre proposte e le ordinavano con largo anticipo: se avevano in programma un pranzo, una cena particolare, assieme a loro si pensava al menù e si programmavano le pietanze da preparare. La stessa cosa avveniva in occasione del Natale: quello era, in assoluto il periodo più impegnativo, e allo stesso tempo quello che ci ha sempre portato grandi soddisfazioni».
Un’attività che però i vostri figli hanno preferito non continuare…
I nostri figli non hanno voluto continuare: forse ci hanno visto troppo stanchi e decisamente sacrificati. Avevano un’altra opzione, hanno scelto quella e noi non abbiamo fatto pressioni, nel modo più assoluto.
Ricordi speciali?
«Vent’anni fa arrivò una troupe televisiva americana che fece un documentario sulla nostra attività. Volevano sapere tutto su “come fate la pasta”: per noi è stato come sfondare una porta. Li abbiamo accolti con enorme piacere e spiegato tutto quello che c’era da sapere sull’arte di fare la pasta e di farla diventare, poi, un piatto da servire. Se fossimo andati all’estero avremmo sicuramente realizzato qualcosa di molto bello: ci penso, ogni tanto. Però forse doveva andare così. I nostri ricordi sono anche legati ai momenti belli trascorsi con i clienti».
Siete stati in via del Popolo per 37 anni: per voi, un occhio particolare su Vigevano.
«Avere l’attività in via del Popolo ha significato tanto, per noi. Ha voluto dire osservare il mondo del commercio con gli occhi di chi il commercio lo fa, ma anche con lo sguardo di chi entra in tanti negozi. La via del Popolo di quanto abbiamo iniziato noi era una strada animata, c’erano negozi che adesso non ci sono più, c’era tanta gente. Ci ricordiamo la fiumana di persone, la vedevamo dal negozio e bastava affacciarsi sulla porta per assistere a quella che, in assoluto, è una delle fotografie più significative della nostra storia. Adesso è un deserto, la via del Popolo è sempre vuota. Non si può di certo fare qualche serata a tema per dire che il centro si è riempito, ci vuole altro. In via del Popolo ha chiuso la gioielleria Binotti, le gastronomie Farumi e Perotti. In assoluto la cosa che ci ha colpiti di più è stata la chiusura della boutique Luisa Spagnoli, che rimane tuttora vuota: però se Luisa Spagnoli che è proprietaria del negozio può lasciarlo sfitto, secondo noi è un segno di decadimento. Tra gli storici, rimangono il negozio di arredamento Stopino e il fruttivendolo Valente Giuseppe che ha iniziato con noi, e altri che si sono aggiunti. Euro, Covid, politica dei supermercati non hanno giovato. Ma girando per altre città, delle dimensioni che ha la nostra, lì il negozio di vicinato c’è ancora e funziona benissimo. Tutto sta andando nella direzione della grande distribuzione: è un processo iniziato vent’anni fa che continua e sta travolgendo tutto. Purtroppo».
Isabella Giardini