La Parola di Dio della liturgia di questa domenica ci accompagna nella contemplazione del Dio nascosto, che opera nel silenzio e nel segreto. Un silenzio di trent’anni avvolge la vita stessa di Gesù: “Poiché ha vissuto così familiarmente con noi nel villaggio, spartendo lealmente il nostro genere di vita, capisco ora questo suo stile, questo suo modo di incedere sulla via del mondo, escludendo ogni ricorso a preparazioni suggestive, a frasi arcane, a sussulti, a spasimi”. (D. M. Turoldo). Nella pagina di Vangelo troviamo un insegnamento che ravviva la nostra fiducia e nello stesso tempo stimola la nostra responsabilità. Sono messe a confronto la grazia di Dio e la nostra libertà che contraddistinguono la storia di tutto il popolo cristiano e in essa interpellano oggi la storia di ciascuno di noi.
Il brano di Ezechiele (prima lettura) e quello di Marco (vangelo) sono tra loro strettamente legati sia per le immagini che adoperano – quella della crescita, della pianta e del seme – come per il contenuto che si intende trasmettere: la crescita del regno di Dio e la sua estensione che non conosce limiti.
Per comprendere la parabola del seme che cresce nascostamente dobbiamo riferirci al tempo di Gesù, quando la tecnica moderna di incrementare la crescita e la produzione mediante mezzi chimici e meccanici era del tutto sconosciuta. Quasi tutto era lasciato alla fertilità del suolo, che spontaneamente faceva crescere la pianticella e il frutto. E’ interessante notare che, dei quattro versetti che compongono la parabola, tre sono spesi per descrivere il processo misterioso della crescita: il seme cresce e si sviluppa senza che l’uomo intervenga in qualsiasi maniera. Che dorma o che vegli, il risultato rimane invariato. Sembra questo il punto focale dal quale collocarci per comprendere non solo questa parabola, ma anche quella analoga del granello di senape che Gesù aggiunge.
Così, parlando del regno di Dio, Gesù ci insegna che il regno è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, il seme germoglia e cresce; come? L’uomo non lo sa. Con la parabola del piccolo granello di senape Gesù vuole convincere chi lo ascolta che il regno di Dio è un dono, è la potenza di Dio in noi. Dobbiamo avere fiducia, il regno di Dio non dipende in primo luogo dai nostri sforzi e dai nostri tentativi, ma dalla potente fecondità della Parola di Dio e della grazia che Dio ci elargisce per amore.
E mentre la Parola, come un seme che cade in terra buona, produce i suoi frutti, il nostro cammino dietro a Gesù prosegue tra inciampi e cadute, ma a nostra insaputa. Questo può infonderci molta speranza.
Il regno di Dio è la promessa dell’amore di Dio, e l’amore non si stanca mai di amare e di donarsi sempre di più. Radicati in questa profonda fiducia nella realtà del regno, sicuri che non saremo mai abbandonati da Dio e che, anzi, Dio avrà sempre più cura di noi, come possiamo non abbandonarci a questo Dio “amico”, a questo Dio “fratello” che tanto benevolmente si prende giorno per giorno cura di noi, anche quando noi non ci pensiamo?
Il regno cresce come cresce il seme, anche quando colui che lo ha seminato dorme. L’amore di Dio cresce in noi e per noi anche quando noi non ci pensiamo. Occorre lasciarci avvolgere da questa benevolenza e far sì che la nostra vita diventi una risposta di amore all’amore. Qui è giustamente impegnata la nostra capacità di risposta, ossia la nostra responsabilità.
L’amore cresce in noi: lasciamolo crescere, anzi comportiamoci secondo i ritmi misteriosi della sua crescita; lasciamoci coinvolgere dalla sua crescita in noi.
In un recente passato c’è stata una tendenza ad interpretare queste parabole di Gesù in una chiave un po’ trionfalistica o per lo meno di difesa nei confronti della Chiesa che facilmente veniva identificata con il regno di Dio e della quale si sottolineavano gli aspetti geografici e quantitativi, più che quelli qualitativi e misterici.
La Parola di Dio suggerisce invece l’immagine di una Chiesa povera, che non annuncia se stessa, non cerca se stessa, si distacca da ogni ricchezza e si libera da ogni compromesso. Inoltre queste parabole suggeriscono un altro atteggiamento: la pazienza. Se la realizzazione del regno di Dio non dipende da me, saprò essere paziente. Questo non vuol dire che mi devo rifugiare in un quietismo privo di qualsiasi impegno pensando che tanto è Dio che fa tutto. Occorre al contrario avere la consapevolezza che Dio agisce in noi, ma senza legarsi ai nostri tempi o desideri. E’ Dio che chiama, si serve di noi, ma non sappiamo in che modo. La vera povertà è questa: fare tutto senza attribuirci il merito di nulla; operare con tutto noi stessi senza pretendere di vedere il raccolto. E’ lezione di umiltà!
don Giampaolo Villaraggia