C’era un albero, un fico. Cresceva in una vigna, ma non dava frutti. Tre anni, e niente. Il padrone della terra, un uomo dallo sguardo severo, lo guardava scuotendo il capo: “Taglialo. A che serve uno spazio occupato per niente?” Ma il vignaiolo – mani dure di chi lavora la terra, occhi pieni di stagioni – disse:
Aspetta. Dammi tempo. Lo curerò, scaverò attorno, metterò concime. Forse darà frutto. Se no, lo taglierai.
Eccolo lì, il tempo che ci viene dato. Un tempo sospeso tra il nostro essere sterili e il miracolo della fecondità. Ma quanto ci accorgiamo di quella mano che ancora scava attorno a noi, che non ci condanna, che spera? Questa terza domenica di Quaresima ci porta davanti a uno scenario che somiglia a un quadro dipinto in toni cupi: il sangue mescolato alle offerte di Pilato, la torre di Sìloe che crolla su diciotto persone. Dolore, tragedia, vite spezzate in un attimo. E la domanda inevitabile: perché? Erano forse peggiori di noi? Gesù ascolta, lascia scivolare il silenzio tra le parole, poi dice: “No. Ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.” Non è un monito di terrore, non è un avvertimento gridato da un profeta furioso. È il respiro lungo del vignaiolo che chiede tempo per il fico sterile. È il gesto paziente di chi ancora spera che la terra, se lavorata con amore, possa restituire frutti. Non è una condanna, è un appello: svegliati, vivi, porta frutto. Mosè stava pascolando pecore quando il roveto ardente gli si fece incontro. Un cespuglio in fiamme che non si consumava. Non una minaccia, non un castigo: una voce che chiamava. Il dolore che aveva visto in Egitto non era stato una sentenza, ma un inizio. La sua missione non nasceva da una condanna, ma da una possibilità.
Così è anche per noi. Non basta guardare il mondo sprofondare nelle sue tragedie, aspettando che passi la tempesta. La Quaresima non è tempo di attese sterili, ma di mani sporche di terra, di cuore scavato in profondità, di radici che respirano nuova linfa. È il tempo del vignaiolo, di chi sa che ogni giorno è un dono prezioso per trasformare la propria vita in qualcosa che nutre gli altri. Santa Paola Elisabetta -nostra Fondatrice- vide due bambine orfane, e nella loro fragilità riconobbe un seme da custodire. Non si voltò dall’altra parte, non disse: “Non è affar mio.” Vide, comprese, agì. Il dolore, se accolto, può diventare missione. Non siamo chiamati a giudicare chi cade, né a stare alla finestra a contemplare il disastro. Siamo chiamati a essere alberi vivi. A dare frutto. Perché il tempo che ci è dato è prezioso, e il vignaiolo è ancora lì, con le mani nella terra, sperando che finalmente sbocciamo.
padre Gianluca Rossi