Un prete “pellegrino” tra le case della sua gente

Don Gianluca Zagarese, ordinato sacerdote dal 1995, è stato al servizio di diverse comunità della diocesi di Vigevano, prima di approdare alla chiesa del Cuore immacolato di Maria, comunemente nota come “la Pellegrina” poiché ospita la statua della Madonna che era stata portata in pellegrinaggio tra il 1948 e il 1950, con una grande partecipazione popolare, in tutte le parrocchie della Lomellina.

Perchè sei diventato prete, allora? Perchè essere prete oggi?

«È stato 40 anni fa, allora ero poco più che diciottenne, e rispetto a chi entrava in seminario in prima media, la mia era considerata una vocazione adulta. Ho compiuto un percorso di discernimento per riflettere con preti, suore, amici, tenendo come punto di riferimento i Padri dottrinari e il Movimento dei focolari. Volevo trovare la mia strada per servire la Chiesa, e il vescovo Giovanni Locatelli, a cui una suora mi aveva suggerito di chiedere un consiglio, mi disse semplicemente: “Fai una prova, poi vedi”. Essere preti, più che un pensiero, è una speranza che ti permette il discernimento. C’è un’immagine determinante: dovremmo seguire Cristo con una vita apostolica, ma inserita in un contesto diocesano. Se facciamo un salto temporale dal 1988/89 a oggi, è cambiato tanto. Il nostro lavoro coincide sempre con la vocazione, ma quell’inserimento ti mette in gioco, quel desiderio di seguire Cristo è messo alla prova dal ministero stesso. Quando 30 anni fa sono stato a Mortara, c’era una gran voglia di fare nella gente. Una volta, alla messa della vigilia di Natale, le confessioni erano così numerose che smisero solo a mezzanotte meno un minuto… Adesso niente a che vedere. Siamo segnati dal fatto di condurre un gregge dove molti sudditi non ci sono più».

Quanto è importante unire le opere alla fede?

«La carità è ciò che muove tutto, una cifra comprensiva mossa dalla carità pastorale che ti porta ad amare la vita, quindi te stesso e i tuoi fratelli. La vera fragilità è l’egoismo. Poi dipende dal territorio pastorale: questa è una parrocchia di periferia, con famiglie povere e molta immigrazione. È un quartiere popolare, nato in seguito alla forte presenza di immigrati dell’Italia meridionale a partire dagli anni ’60. Ai parroci miei predecessori si deve il progetto “Insieme a mensa”, che in collaborazione con la Caritas diocesana fornisce pasti caldi ai bisognosi; inoltre i locali della parrocchia ospitano un “magazzino del riuso” con vestiario, mobilia e oggetti che ad altri non servono più. A coordinare il tutto c’è un centro d’ascolto dove si incontrano le persone che hanno bisogno, per un primo colloquio che serve a raccogliere i dati e trasmetterli alla Caritas. Questo è un polo della carità importante. La carità però non passa necessariamente attraverso la conversione di chi la riceve, ma è la conseguenza morale di chi segue Gesù. Non mi aspetto conversione o gratitudine, tutto dipende dalla risposta a un bisogno. Ci sono relazioni che non nascono da una richiesta di amicizia, ma da un bisogno concreto, da una necessità materiale. E se tutto quel che facciamo è evangelizzazione, la domanda che dovremmo farci è: “quanto di ciò che facciamo è davvero espressione del Vangelo?”. La parrocchia non dev’essere una lobby, ma l’espressione della Chiesa in un territorio, come la “fontana del villaggio” di cui parlava papa Giovanni XXIII: una “casa tra le case” nata storicamente non per la missione, ma per l’amministrazione dei sacramenti, dal battesimo all’estrema unzione. Bisogna ripensare a una nuova evangelizzazione: quanti parrocchiani hanno imparato a pregare in chiesa, quanti partecipano alla messa, a novene e processioni? La confessione ormai è sclerotizzata, ed è sempre meno presente il catechismo. La carità, insomma, comporta l’evangelizzazione? No, ma occorre comunque mettere a fuoco i valori del Vangelo.

I conflitti sono normali nei gruppi parrocchiali, siamo umani; ma ognuno dovrebbe essere libero di scegliere in quale settore operare, a seconda dei bisogni della comunità.

C’è un episodio, tra le storie di carità che passano di qui, che ti ha toccato particolarmente?

«Un anno e mezzo fa ci è capitato il caso di una coppia che dormiva in auto con due bambini piccoli. Erano stati sfrattati da 15 giorni e il capofamiglia lavorava a Milano. Era estate, faceva molto caldo e quelle condizioni erano proibitive. Ci siamo attivati subito telefonando a destra e a manca: servizi sociali, numeri d’emergenza, Caritas. Un’ora e mezzo, e il telefono scottava. Poi qualcuno ha suggerito la Casa della carità a Mede, dove oltre a distribuire i pacchi alimentari c’è un piccolo alloggio a disposizione per chi è senza un tetto. Abbiamo accompagnato questa famiglia a Mede, dove i bambini potevano usufruire del Cav, il centro di aiuto alla vita, e dopo un mese abbiamo saputo che avevano trovato un alloggio a Mortara e si erano sistemati.

Davide Zardo

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