In via Volpi, di fianco al civico 2, una lapide ricorda il suo nome. Due righe, per riassumerne la biografia e spiegarne la morte; due righe, che non bastano però a raccontare i sogni e le aspirazioni di un ragazzo che, a 17 anni, era già comandante partigiano in una terra che non era quella dove era nato, ma dove s’immaginava un futuro, complice il sorriso di qualche fanciulla e l’amore, certo, per la libertà.
MEMORIA La targa che ricorda Giovanni Loew, nel centro di Lomello, è uno dei tanti luoghi della memoria sparsi per la Lomellina: lapidi e memoriali che commemorano storie di Resistenza magari meno note di quelle del vicino Oltrepò, ma altrettanto significative in quella che fu la guerra di liberazione dal nazifascismo. Loew in Lomellina ci era arrivato da Milano, “spedito” dalla madre per sfuggire alle persecuzioni riservate a chi, come lui, aveva sangue ebraico: qui fin da subito si era però impegnato in maniera attiva nella resistenza, diventando uno dei giovanissimi comandanti della brigata Grieff, attiva nella zona di Lomello. La città del suo arresto, prima di essere condotto a Dachau, dove trovò la morte. La Grieff, composta da numerosi ex prigionieri e poi confluita nella brigata Fachiro, non era l’unica formazione partigiana presente sul territorio: sulle rive del Po era attiva la Bassa Lomellina; c’erano gli anarchici della Bruzzi-Malatesta, gli autonomi del gruppo Cairoli, mentre a Vigevano operavano i “rossi” della Leone e i monarchici della Beato Matteo. Di loro resta una memoria tramandata tramite pietre d’inciampo, iscrizioni, monumenti. Sempre a Lomello, lungo la statale 756 un cippo ricorda Angelo Camussoni, partigiano che lì fu ferito a morte durante uno scontro a fuoco con i nazifascisti. Era il 25 aprile del 1945: in altre parti d’Italia, già si festeggiava l’Italia liberata.
LA BATTAGLIA Non in Lomellina, e non a Vigevano, dove i proiettili volarono ancora per qualche tempo. La città ducale è ricca di testimonianze della sua lotta al nazifascismo, anche se spesso passano sottotraccia, inosservate: le lapidi in castello in memoria di Giovanni Leoni, Carlo Gazzo, Salvatore Frasconà e Giovanni Profili, lì fucilati chi perché partigiano chi, (come Leoni) per rappresaglia, senza una vera ragione; oppure le tante pietre d’inciampo, dedicate anche a nomi noti della Resistenza (Teresio Olivelli, Anna Botto). La liberazione, come detto, arrivò in città più tardi, tanto che il 27 aprile ancora si combatteva sui binari della ferrovia, in quella serie di scontri noti come la battaglia alla stazione ferroviaria: da una parte i tedeschi su tre treni blindati, dall’altra i partigiani, che quei convogli li fecero saltare con un colpo di bazooka. Gli assalti costarono la vita a nove combattenti e a cinque civili (due ostaggi dei nazisti, uccisi mentre tentavano la fuga). Gli americani su questa battaglia ci avrebbero fatto un film: qui chi è caduto è ricordato con un cippo nei boschi del Ticino (dedicato a Pierino Boselli) e con una lapide in stazione. I nomi dei civili uccisi sono Caterina Buffa, Cesare Corsico, Giuseppe Costa Giovanolo, Ntale Franchini, Gianfranco Rossini, Ambrogio sacchi, Michele Tamburelli.
Il ruolo e il valore dei combattenti cristiani
Durante la Resistenza italiana, molti giovani credenti scelsero di opporsi al fascismo non con l’odio, ma con l’amore per la giustizia. Si formarono gruppi come le Fiamme Verdi, animati da un ideale evangelico di libertà, carità e verità. Per loro la fede non era rifugio, ma slancio verso l’azione, risposta alla violenza con la forza mite del Vangelo. Uomini e donne, sacerdoti e laici, offrirono rifugi, parole, pane, braccia. E a volte, la vita.

IL BEATO Teresio Olivelli (1916-1945), nato a Bellagio e cresciuto a Zeme, fu un giovane brillante, laureato in legge e appassionato di giustizia e fede. Dopo l’adesione iniziale al fascismo, maturò un forte dissenso verso il regime e il razzismo, difendendo ebrei e perseguitati. Combatté in Russia come ufficiale degli Alpini, dove conobbe l’orrore della guerra e il valore della solidarietà cristiana. Tornato in Italia, rifiutò la Repubblica Sociale Italiana e aderì alla Resistenza, partecipando al movimento cattolico “Fiamme Verdi”. Dopo l’8 settembre 1943 si unì alla Resistenza cattolica, fondando il giornale clandestino “Il Ribelle”, in cui difendeva la dignità umana e denunciava le violenze nazifasciste, e componendo la celebre “Preghiera del ribelle per amore”.
Arrestato nel 1944, fu deportato nei campi di concentramento di Fossoli, Bolzano e infine Hersbruck, in Germania. Anchelì Olivelli si fece esempio di carità, dividendo il cibo, aiutando i deboli e pregando. Morì il 17 gennaio 1945, dopo aver protetto un compagno di prigionia percosso da una guardia. Beatificato nel 2018 a Vigevano, è ricordato come il “partigiano della carità”, esempio luminoso di coraggio, fede e amore per la libertà.
La sua testimonianza è quella di un giovane laico che, tra fede, coraggio e dolore, seppe opporsi al male con l’amore.
GUGIA Cornelio Fornasari, detto Gugia, fu ribelle per amore e medico per vocazione. Nato a Cesano Maderno nel 1920, cresciuto nell’Azione Cattolica, studiò medicina al collegio Borromeo di Pavia, dove conobbe Olivelli e don Poma. Fondò i Crociati della libertà e aderì alla Fuci. Nel 1944 entrò nella 76ª Brigata Garibaldi, scegliendo la lotta armata contro la tirannide. Il suo diario postumo, Morte di un santo, di un rivoluzionario e di un eroe, racconta azioni, dilemmi morali e coraggio ispirato dalla fede. Dopo la guerra si dedicò alla medicina e agli altri, fino alla morte in un incidente stradale nel 1973. Il figlio Pier Maria lo ricorda come uomo di fede incrollabile e spirito innovativo. La sua vita incarna l’anima più profonda della Resistenza cristiana: lottare per amore.
IL TESTIMONE Raffaele “Raf” Morini, spentosi il 12 aprile a 95 anni, fu uno degli ultimi testimoni della Resistenza pavese. Nato nel 1929, fu partigiano cattolico a soli 14 anni, portaordini tra i monti del parmense. Dopo la guerra lavorò con Enrico Mattei e fu funzionario ENI a Sannazzaro. Fondò la sezione pavese dell’Associazione partigiani cristiani, di cui fu a lungo presidente. Nel 1994 consegnò alla Procura parte del relitto dell’aereo di Mattei, custodito per decenni, riaprendo le indagini. Ricordava sempre l’impegno del clero, grazie al quale sacerdoti, suore e religiosi offrirono rifugi, conforto, aiuto. Memorabile l’ospitalità del convento milanese di madre Rosa Chiarini, divenuto quartier generale del Corpo volontari della libertà il 25 aprile 1945. Raf non smise mai di raccontare quella Resistenza fondata su coraggio, fede e speranza, ripetendo: «Non si può contemplare l’universo e restare inerti».
Storie di sacerdoti e partigiani
É unanimemente riconosciuto l’importante ruolo svolto da gran parte del clero durante la Resistenza. Molti sacerdoti hanno lottato, sofferto ed alcuni hanno dato anche la vita per gli ideali di libertà e giustizia che hanno ispirato il movimento di Liberazione.
DODICI STORIE Dodici delle loro storie sono raccontate nel libro “L’aiuto del clero alla Resistenza” di Marco Miconi, presidente nazionale dell’Associazione partigiani cristiani fondata nel 1947 a Milano da Enrico Mattei. «Ho scritto ognuno di questi capitoli – racconta Miconi, nato e residente a Zeme – per il mensile ”L’Aurora della Lomellina“: in ogni numero parlavo di un sacerdote, per un totale di undici pubblicazioni, dato che in agosto l’Aurora non esce. Quando l’allora parroco di Zeme, don Enea Cassinari, mi ha proposto di raccoglierli in un volume, ho pensato che per completare l’anno e arrivare a dodici, numero dal forte simbolismo religioso, mi mancava una storia. Così ho parlato di don Giovanni Minzoni, che morì nel 1923 in seguito all’aggressione di due squadristi fascisti».
I TESTIMONI Miconi ha avuto la fortuna di poter intervistare alcuni dei sacerdoti ancora in vita, tra cui don Giovanni Barbareschi, che fu grande amico di don Caro Gnocchi e di padre Davide Maria Turoldo, e don Aldo Benevelli, che decise di entrare in seminario dopo essere stato salvato nel 1945, proprio nel giorno in cui doveva essere fucilato in seguito alla condanna a morte. «Il mattino del 28 aprile sentii spari e urla nel cortile. Pensai alle esecuzioni dei miei compagni, sentii i passi nel corridoio avvicinarsi, ma invece dei carcerieri ad aprire la porta della cella di isolamento dove ero rinchiuso, vennero i miei compagni partigiani».
Fui l’unico superstite. Uscii dal carcere e ringraziai Dio per avermi dato un’altra possibilità. Fu allora che decisi di diventare prete.
DON FALSARIO Tra i sacerdoti lomellini che si impegnarono nella lotta al nazifascismo un posto d’onore merita monsignor Pietro Barbieri, di Valle Lomellina, che nella sua casa romana in via Cernaia 14 ospitò in gran segreto le prime riunioni del Comitato di liberazione nazionale, e che grazie a una stamperia clandestina (per questo era soprannominato “don Falsario”, nome con cui è passato agli onori delle cronache) fu in grado di falsificare documenti salvando la vita a molti perseguitati e oppositori del regime mussoliniano, tra cui Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Alcide De Gasperi e Giuseppe Saragat.
IL PADRE SALVATO DAL PARROCO «Monsignor Barbieri – racconta Marco Miconi – in America confortò gli anarchici Sacco e Vanzetti incarcerati e ingiustamente condannati a morte, a Londra incontrò don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare, a Pieve del Cairo dopo la guerra creò la casa di cure “La Cittadella”, inaugurata nel 1954 dal presidente Einaudi, e a Valle la residenza per anziani Villa Sant’Eulalia. Fu un grande uomo, ma il sacerdote a cui resto più legato è don Luigi Biscaldi, parroco di Zeme, che nel febbraio 1945 salvò mio padre Carlo da una retata dei nazisti e della brigata nera, nascondendolo nella cantina della canonica. Mio padre poi divenne un jazzista, non si interessava di politica, e io venni a sapere di quest’episodio (di cui neppure don Luigi mi disse mai nulla) perché papà un giorno lo raccontò a mio figlio. Non si conosce mai abbastanza quello che hanno fatto i preti nella Resistenza: è il motivo per cui ho voluto scrivere questo libro».
Af, Dz