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Dove prima si costruivano pale eoliche e si mettevano a posto i tram, ora si fa comunità, giocando a pallacanestro e andando in skateboard. E’ questo il principio alla base degli Streetmekka, esempio di rigenerazione urbana correlata allo sport che arriva dalla Danimarca. Ad avere per primo l’idea di uno spazio dove tutti, indipendentemente dall’età, potessero fare sport tutto l’anno gratuitamente (o comunque a prezzi popolari) fu Samir Bohammouch, artista danese di origine marocchina nonché grande appassionato di street basket: un’esigenza non secondaria in un paese dove gli inverni sanno essere particolarmente rigidi.
DALLA STRADA La vocazione “street” ovvero di uno sport informale, flessibile, in grado di adattarsi a spazi e contesti differenti, è alla base della filosofia di Game, associazione no-profit che, facendo propria l’intuizione di Bohammouch, nell’ottobre 2010 contribuì assieme all’amministrazione municipale all’apertura del primo Streetmekka nel quartiere portuale di Kongens Enghave, Copenhagen. La sede scelta fu una vecchia officina per tram, caratterizzata da ampi spazi interni e in disuso da tempo. E quello del recupero di edifici industriali urbani è stata la ratio dietro la realizzazione degli altri tre Streetmekka attualmente attivi in Danimarca, tutti gestiti da Game: a Viborg in una fabbrica di mulini a vento, ad Aalborg in un laboratorio, a Esbjerg in una rimessa per locomotive,
luoghi dentro i quali sono stati realizzati playground per il basket, campetti da street soccer, piste da skate, piattaforme per il parkour, ma anche aree per la danza e per fare musica.
L’altro punto in comune degli Streetmekka è il basto costo d’accesso: per i soci (l’iscrizione costa una decina di euro annui) si va dai 44 euro d’abbonamento annuale per gli under 21 ai 100 per gli over; l’ingresso giornaliero singolo, aperto anche ai non soci, è al massimo di 6.7 euro. Per fare un paragone, in Italia il prezzo per affittare un campo da calcetto un’ora si va dai 50 ai 70 euro.
CASE STUDY A Vigevano sul fronte del recupero di vecchi edifici industriali c’è un case study interessante: quello del Polo Ugart di via Pisani, inaugurato nel 2020 in quelli che prima erano gli spazi della fabbrica di gomma Ursus e poi quelli del fallito consorzio Ast di Vigevano. Per 12 anni il comune ha dato i 1800 metri quadri dell’edificio in comodato all’associazione temporanea di scopo Ugart, che raggruppa tutte le realtà fruitrici del polo ludico-sportivo (attualmente l’accademia circense Urban Gravity, l’associazione dilettantistica Scacchistica Vigevanese, la Croce Rossa e la cooperativa Igea) e che si occupa della gestione. All’epoca l’allora sindaco Andrea Sala disse che se il modello avesse funzionato, si sarebbe potuto allargare ad altri edifici cittadini. Sono passati quattro anni e il Polo ha dimostrato la sua funzionalità, ma il modello non è ancora stato replicato. E dire che a Vigevano non mancano né i contenitori vuoti (uno su tutti, l’ex macello) né quelli che lo saranno a breve, come la materna dei Piccolini.
A difettare sono sicuramente le risorse economiche, ma anche una progettualità unitaria legata allo sport per tutti.
VOLONTA’ Vigevano Proxima, il piano di rigenerazione urbana della città ducale finanziato sia con fondi Pnrr sia con contributi di fondazioni e Regione, prevede 16 progetti tra recupero di immobili e realizzazione di nuove opere, nessuna delle quali è però legata allo sport di base. Dal 2020 l’unica struttura per lo sport gratuito realizzata in città è un’area calisthenics al parco Pertini; nel futuro sono previsti dei campetti da basket e calcio al nuovo parco di via Podgora e la riqualificazione dei terreni di gioco dell’istituto Negrone, quest’ultima però più una suggestione che una progettualità vera e propria. Nel 2023, col bando “Sport e periferie”, il Governo ha stanziato 75 milioni di euro destinati a progetti dei comuni con meno di 100mila mila abitanti per la realizzazione o la riqualificazione di impianti allo scopo di favorire la socializzazione e combattere il degrado: da Vigevano non è arrivata nessuna richiesta. I costi, sociali ed economici, del “non fare sport” sono constatati da numerosi studi: secondo il progetto di ricerca Riunisci, realizzato dall’Università Bicocca nel 2023, per un milione di euro investito nello sport di base, se ne producono quasi 2 e mezzo di ritorno economico-sociale. La volontà dunque è spesso politica: di prediligere la pratica agonistica o quella costosa garantita da società private, o addirittura di tutelare più il quieto vivere di un singolo “vicino che buca il pallone” rispetto al benessere di una comunità.
Alessio Facciolo