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Questa settimana L’Araldo propone un viaggio nella “società della stanchezza”. È una percezione sempre più diffusa quella di un tempo in cui i giorni si succedono a un ritmo frenetico inseguendo impegni e scadenze con l’impressione di non riuscire mai davvero a venirne a capo, spesso associata a un senso di colpa per non aver “performato” quanto ci si attendeva.
PERCEZIONE Ed è una percezione diffusa soprattutto tra chi è nato dagli anni ’80 in poi (millennials e generazione Z) e a volte perfino difficile da comprendere per la baby boom generation. Ne scrivono e ne parlano filosofi, religiosi, ma anche istituti di ricerca, osservatori, aziende e università iniziano a studiarla come fenomeno. Di dati sulla stanchezza ce ne sono pochi anche perché, oltre a essere soggettiva e quindi difficile da misurare, è oggetto di stigma sociale in una società che mette al centro la “prestazione”.
Dagli incontri che mi è dato di vivere, dalle confidenze che raccolgo mi sono convinto che si può riconoscere come uno dei sentimenti diffusi una sorta di spossatezza, come di chi non ce la fa più e deve continuare ad andare avanti. Ecco: la stanchezza mi sembra un punto di vista per interpretare la situazione.
Così l’arcivescovo di Milano Mario Delpini nel “Discorso alla città” dello scorso dicembre in occasione di Sant’Ambrogio. Ecco allora un viaggio nella “società della stanchezza”. Che non si tratti solo di “materiale per omelie” lo si può comprendere dall’attenzione crescente nel mondo da parte di istituti di ricerca, università e aziende. Lo “State of Global Workplace 2024”, pubblicato dalla società di analisi Gallup, spiega che «in questo anno il 41% dei dipendenti riporta di aver sperimentato “molto stress”», mentre l’Osservatorio BVA Doxa-Mindwork per l’Italia evidenzia che il 55% dei soggetti fatica a conciliare il lavoro con la vita privata e familiare e che il 47% sperimenta “stanchezza diffusa”, con una sensazione di “spossatezza” che, secondo un’indagine Deloitte, riguarda soprattutto la fascia più giovane di chi è in età lavorativa, i millennials (30%) e la generazione Z (36%). «Il deterioramento globale della salute mentale è preoccupante – scrive nell’introduzione del report il ceo di Gallup Jon Clifton – Alcuni temono che stiamo perdendo il controllo. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha affermato: “Il nostro mondo sta andando fuori rotta.” Forse il suo è un eccesso di pessimismo. Dopotutto, stiamo vivendo nel periodo migliore della storia umana. “Il progresso umano è un fatto osservabile” ha osservato il professore di Harvard Steven Pinker. Ma se avessero ragione entrambi? Se la salute mentale dell’umanità stesse peggiorando rapidamente proprio in un’epoca d’oro di progresso e prosperità, ci troveremmo di fronte a uno dei più grandi paradossi del nostro tempo».

IL SAGGIO A scrivere per primo di “Società della stanchezza” è stato il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, che ha parlato anche di “Società dell’angoscia”, due facce della stessa medaglia. «La società disciplinare descritta da Foucault – scrive Han – fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche, non è più la società di oggi. Al suo posto è subentrata da molto tempo una società completamente diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di genetica. La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione (Leistungsgesellschaft). I suoi stessi cittadini non si dicono più “soggetti d’obbedienza”, ma “soggetti di prestazione”». In quanto tali esercitano una piena libertà
dall’istanza esterna di dominio, che lo costringerebbe a svolgere un lavoro o semplicemente lo sfrutterebbe. È lui il signore e sovrano di se stesso
eppure «il venir meno dell’istanza di dominio non conduce alla libertà. Fa sì, semmai, che libertà e costrizione coincidano. Così il soggetto di prestazione si abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione volta a massimizzare la prestazione. L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino a sfruttamento. Ed è più efficace dello sfruttamento da parte di altri in quanto si accompagna a un sentimento di libertà. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato». Si potrebbe ricondurre l’origine di questo sistema al XVII secolo; sulla costa di quello che ancora non è, ma sarà, il Massachusetts, i Padri pellegrini scendono dalla Mayflower e fondano New Plymouth: è l’alba di un “Brave new world” che plasmato dalla corsa alla frontiera, dalla nascente mentalità commerciale britannica e dalla morale calvinista, in cui il successo lavorativo è segno di predestinazione e grazia divina, da cui consegue l’idea di insuccesso come colpa (per chi pensa che i retaggi culturali siano scevri di conseguenze nel tempo, basti pensare all’approccio totalmente differente all’idea di “welfare state” tra le sponde americana ed europea dell’Atlantico).
MULTI Il salto di qualità tuttavia è più recente, con la rivoluzione digitale che velocizza i processi, moltiplica esponenzialmente le connessioni, le informazioni, gli stimoli, rende tutti sempre raggiungibili. «La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante» scrive Han e le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello, contrariamente a un computer che nella cpu ha diversi core disponibili per sequenziare i processi, non funziona così e l’apparente multitasking determina un carico di lavoro supplementare e un consumo di attenzione più elevato. Senza contare che a tutti i cittadini oggi sono richieste competenze maggiori rispetto alla fine del XX secolo: per citare qualche esempio, l’home banking, l’accesso ai servizi della pubblica amministrazione da remoto tramite spid, la semplice spesa al supermercato sempre più si svolgono in assenza di un operatore che svolge la mansione e dunque spetta all’utente colmare quel deficit di competenza che si crea nel rapporto persona-macchina. Non basta più pazientare e fare la fila in attesa di ricevere un servizio, la “prestazione” è affidata al cittadino.
STANCHI DI COSA? Così, nelle parole di mons. Delpini, «di cosa è stanca la gente?». E’ stanca «di una vita appiattita sulla terra, tra le cose ridotte a oggetti, nei rapporti ridotti a esperimenti precari», «di un lavoro che non basta per vivere, di un lavoro che impone orari e spostamenti esasperanti», «della burocrazia, dell’ossessione dei controlli che tratta ogni cittadino come un soggetto da vigilare», «della frenesia che si impone alla vita delle famiglie con l’accumularsi di impegni e delle prestazioni necessarie», «di servizi pubblici che costringono a ricorrere al privato, di un’amministrazione che non sa valorizzare le risorse della società civile», «di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e l’esibisce come se fosse la vita, stanca della cronaca che ingigantisce il male e ignora il bene». La rilevazione Gallup indica che
i dipendenti “coinvolti” nei Paesi con leggi sul lavoro volte a garantire salari equi, sicurezza sul lavoro, responsabilità familiari e maternità riportano i livelli di stress più bassi.
SPERANZA Sembra che funzionino meglio approcci basati sull’interazione piuttosto che sulla prestazione. Sempre Gallup evidenzia anche una correlazione con la solitudine e non è casuale che la stanchezza sia messa al centro dall’arcivescovo di una città in cui il 55% delle famiglie è formato da una persona sola. Una comunità esausta, una comunità di individui, di fatto una non comunità «stanca di una previsione di futuro che non lascia speranza» e in cui, non essendoci orizzonti, non ci si ferma mai. Se chi corre può rallentare o arrestarsi del tutto, chi sperimenta la stanchezza mentale tende a rilanciare, andando al limite. Così diventa faticoso perfino dormire (circa 12 milioni di italiani soffrono di insonnia, il 30% dorme meno di 6 ore per notte) e per andare avanti si ricorre a stimolanti (tra 2017 e 2022 il consumo di bevande energizzanti è aumentato del 44% in Italia, nel 2021 il 50% degli studenti tra 15 e 19 anni ne aveva consumata almeno una), anche perché fermarsi, non fornire la “prestazione”, riconduce al fallimento: «Chi oggi fallisce – ha scritto di recente Han – si dà la colpa e si vergogna: individuiamo il problema in noi stessi, piuttosto che nella società». Anche per il filosofo, da una prospettiva laica, l’unica forza che si può contrapporre alla “Società della stanchezza” è la speranza. «È la speranza a unirci – ha detto intervistato da Repubblica – a far emergere comunità e solidarietà. È il nucleo primario della rivoluzione. È lo slancio, il balzo in avanti. Ci apre gli occhi dinanzi a una vita diversa e migliore. La speranza apre al futuro. Solo lo spirito della speranza può salvarci». Il giubileo “della speranza” in questo senso pare avere una visione profetica che esula dalla dimensione esclusivamente religiosa e assume valore di messaggio universale.
Giuseppe Del Signore