Non riusciamo più a comprendere. Siamo circondati di informazioni e di analisi quotidiane, forse sarebbe meglio dire istantanee visto che cambiano minuto dopo minuto,
eppure non riusciamo più a leggere il mondo.
Infodemia, un termine giunto alla ribalta durante la pandemia e che risale a una precedente, la Sars del 2003, quando il giornalista David Rothkopf coniò questo termine per sottolineare i pericoli di un eccesso informativo. “Binge viewing”, per usare un’espressione ripresa dal mondo dei disturbi alimentari e togliere ogni dubbio sul fatto che salutare non è questo fenomeno originato dalla digitalizzazione, con i social media a imporre il ritmo e i media a seguirlo. Ecco allora gli aggiornamenti minuto per minuto sui siti dei giornali, le maratone televisive, gli speciali quotidiani, i continui collegamenti con gli inviati, quasi più presenti sul campo dello sfuggente esercito ucraino. La guerra in diretta, con una potenza di fuoco – non solo delle armi – da far impallidire i due conflitti del Golfo e perfino l’11 settembre. Ma con quali effetti?
Per settimane si è assistito alla pubblicazione di piani di invasione, all’annuncio dell’inizio dei combattimenti, aspettando un Putin che non arrivava mai e che si permetteva il lusso dell’ironia – «anche oggi attaccheremo domani» – salvo poi iniziarlo davvero il conflitto, il 24 febbraio. In maniera un po’ “deludente”: il pubblico si aspetta qualcosa di cinematografico e l’armata russa si concentra solo sul Donbass? Nei giorni successivi l’arco del conflitto si è allargato e l’invasione ha puntato Kiev, la capitale e luogo di nascita del concetto di “Rus’”, ma a questo punto, se gli spettatori hanno ottenuto il loro “spettacolo”, decisori politici e analisti in tutto il mondo occidentale sono apparsi sorpresi, frastornati nonostante i progetti fossero stati annunciati e i carri armati schierati.
Nondimeno questo non è un mondo che ammette lo spaesamento o peggio ancora il silenzio; commentare, condividere, raccontare nel minor tempo possibile è d’obbligo. Ecco allora nella stessa pagina e nella stessa trasmissione i russi in difficoltà, i russi pronti a invadere la Polonia, Putin genio tattico, Putin pazzo, sanzioni che uccidono l’economia russa, sanzioni inefficaci che non cambiano nulla. Nel frattempo i reportage dal fronte – o da qualche chilometro prima, purché ci sia qualche maceria – una casa bombardata, una signora disperata, un combattente pronto a tutto, un profugo che non ha più niente, molti di pregevole fattura, ma che si mescolano a prodotti improvvisati, a servizi che sembrano più intrattenimento che informazione, ai video di Telegram e alle dichiarazioni interessate su Facebook, Instagram e Tik Tok. Chi pensava che “Don’t look up” fosse parossistico nel suo tratto picaresco e parodistico…
Tuttavia quello è un film e questa è la realtà, in cui i media, per inseguire i social media, che la “mediazione” la hanno solo nel nome e sono più che altro “canale”, tubo digerente per lo stomaco, la pancia, rinunciano a mediare. Allora a cosa servono? Abdicano al ruolo di fare un racconto ragionato del mondo e si limitano a proporre un ennesimo “infinity scroll”, ma se non c’è soluzione di continuità si è alla disintermediazione dei media. Guardando alla semiotica, se testo è qualunque porzione di mondo che può essere sottoposta ad analisi, quando manca la capacità di ritagliare la porzione viene meno anche la possibilità di analizzare. Di comprendere. E dove finisce la comprensione c’è l’incapacità di capire l’altro e inizia la guerra.
Una guerra diventata evento seriale, in onda tutti i giorni alle stesse ore e online su tutte le bacheche, dai leader politici alla ormai ex casalinga di Voghera tramutatasi in self-made influencer, che assume tutti i tratti di quella che è la serialità: ripetitiva, banale, prodotto artigianale più che artistico. In quanto tale confortante – si sa cosa aspettarsi – e non eccezionale. Abitudine. Per questo ancora più pericolosa.
Giuseppe Del Signore
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