La chimica al servizio della musica. È questo quello che avviene al laboratorio Arvedi di Diagnostica non invasiva, situato al Museo del Violino di Cremona e gestito dall’Università di Pavia. Il laboratorio nasce come centro di alta specializzazione nella ricerca scientifica e diagnostica per la conservazione degli strumenti musicali antichi: all’interno del suo gruppo di ricerca lavora anche Giacomo Fiocco, vigevanese e ricercatore specializzato nella chimica dei materiali.
Di preciso, come funziona il vostro lavoro?
«L’attività principale di questo laboratorio sono gli strumenti musicali. Il nome del laboratorio Arvedi nasce dall’omonima acciaieria, che ha sede proprio qui a Cremona e attraverso la fondazione Arvedi Buschini finanzia tantissime attività. L’attività del nostro laboratorio è chiaramente collegata al Museo del Violino, anch’esso finanziato dalla Fondazione. Noi condividiamo il laboratorio con i colleghi del Politecnico di Milano che si occupano di acustica: indagini acustiche e vibratorie legate sempre agli strumenti musicali. Il mio laboratorio invece si occupa delle indagini legate ai materiali, alla chimica dei materiali, alla loro conservazione e alle procedure di restauro e manutenzione necessarie per mantenerli nel migliore dei modi».
Si può dire che cerchiate di raccontare la storia degli strumenti partendo dall’analisi dei materiali con cui sono costruiti, un po’ come un’anamnesi medica…
«Sì, è corretto. Faccio una premessa: l’archeometria, che è il termine più generico possibile per indicare tutte le scienze applicate allo studio dei materiali archeologici e culturali, ha degli obiettivi che sono poi legati alla conservazione e alla documentazione dei materiali. Nel nostro caso, per esempio, ci si focalizza su quello che è la tecnica costruttiva storica: per esempio, negli ultimi decenni si è parlato tanto del “grande segreto di Stradivari”, di questa leggenda su come lui realizzasse i suoi violini. Ecco, noi studiamo questo, senza sovrapporci termini come leggenda o segreto, ma in maniera scientifica, il più oggettiva possibile. E uno dei nostri obiettivi è riportare alla luce le tecniche nella città che è Patrimonio Unesco per la liuteria storica. Chiaro che tutto è trainato da chi gli strumenti li costruisce, quindi dai liutai, non ci vogliamo sovrapporre a loro: la competenza di base resta e sarà per sempre la loro».

Quanti liutai ci sono in città?
«Oggi a Cremona sono più di 150, moltissimi per una città di 70mila abitanti. È la patria mondiale della costruzione, ci sono liutai da tutto il mondo che hanno botteghe qui, dal resto d’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra, ma anche, giapponesi, cinesi, coreani, sudamericani. Noi li supportiamo attraverso studi analitici scientifici e poi supportiamo il museo e i restauratori nella pratica della conservazione: proponiamo magari dei gel per puliture con delle caratteristiche particolare, oppure si evidenziamo la presenza di gallerie di tarlo che possono danneggiare lo strumento nel corso del tempo».
Ma questo segreto di Stradivari esiste davvero?
«Parlerei di segreti, al plurale. Sulle tecniche di Stradivari non esistono testimonianze documentate: nei suoi scritti non ha lasciato nessuna traccia, nessun riferimento a materiali, procedure o metodi costruttivi. E il segreto nasce proprio perché non si sa cosa ci sia sopra quegli strumenti. Noi, insieme ad altri gruppi di ricerca stranieri, abbiamo provato a identificare una a una le componenti di alcuni strumenti. Su uno di questi è stata identificata la presenza di colla animale o di caseina: l’abbiamo identificato su uno strumento molto importante, il Toscano 1690, costruito da Stradivari e parte della collezione dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Questo ci ha portato a proporre una teoria, secondo la quale su alcuni strumenti fosse presente la colla animale utilizzata come preparazione del legno per renderlo più rigido, più vibrante, per avere quindi caratteristiche migliori sia da un punto di vista tecnico e vibratorio, sia da un punto di vista estetico. E questo è un dato che andava in contrasto con quello che è stato trovato in Francia, dove in un altro campione, un violoncello, è stata riscontrata invece la presenza di una vernice ad olio. Questo ha instaurato un bel dibattito, che è sempre funzionale all’interno del metodo scientifico. Per questo parlo di segreti: penso che non si possa parlare di una sola variabile che porta quei violini ad essere così importanti, così belli, così prestigiosi, ma che ci siano diversi fattori e che ognuno possa giocare per un violino o per l’altro un ruolo più importante. Anche perché Stradivari arriva ultra novantenne alla sua morte e ha veramente prodotto tantissimi violini, passando per anni in cui anche i materiali sono cambiati, e la possibilità di reperirli. Un violino del 1670 sarà diverso da un violino del 1734».
C’è ancora tanto da scoprire sui violini di Stradivari?
Bisogna capire se periodi diversi corrispondono a materiali differenti. Queste differenze sono presenti da un punto di vista costruttivo: le dimensioni del violino cambiano attraverso il tempo, si allargano, la cassa si amplia, quindi ci sono già delle evidenze, ma mancano per adesso da un punto di vista chimico.
La tua attività ti ha portato anche ad avere degli importanti riconoscimenti personali.
«Quest’estate ho ricevuto dalla Divisione ambiente e beni Culturali della Società chimica italiana la medaglia Raffaella Rossi Manaresi, riservata ai ricercatori under 40. In precedenza nel 2021 avevo vinto il premio Improta, riservato ai ricercatori under 35. Sono riconoscimenti che motivano e che danno il senso non solo della mia attività, ma di quella dell’intero laboratorio: è un premio da ridistribuire tra tutte le persone che hanno lavorato qui dentro nel corso degli anni».
Il vostro laboratorio collabora anche con analoghe attività all’estero: in Corea, in Russia…
«Parto dalla Russia, il progetto più vecchio che purtroppo si è fermato per ragioni che non attengono alla sfera scientifica. Era in collaborazione con il Glinka, che è il corrispettivo in scala moscovita del nostro Museo del violino. Anche loro erano interessati a sviluppare un laboratorio di ricerca all’interno del proprio museo e quindi c’è stata questa bella esperienza di condivisione, di trasferimento di competenze. Qualche anno fa abbiamo vinto un progetto con un’università coreana che verte sullo sviluppo di materiali per il restauro e la pulitura di superfici lignee e tessili. Della Corea mi ha colpito molto la dimensione, la potenza di investimento sulla parte scientifica e soprattutto sulla parte tecnica: la differenza rispetto a noi è soprattutto in termini di strumentazione. Mentre noi siamo molto più abili secondo me a costruire progettualità e raggiungere gli strumenti analitici attraverso collaborazioni diverse, là ogni laboratorio ha tutto e ogni analisi la fa da sé».
Al di là degli strumenti musicali, recentemente avete analizzato anche materiale scritto, ad esempio degli spartiti di Beethoven.
«Sì, ma non solo. Quello è stato un primo approccio con materiali diversi dal nostro campo solito, cioè inchiostro e carta. Ed è stato come aprire una porticina: abbiamo analizzato un manoscritto giovanile di Beethoven ed è stato interessante, anche perché nessuno aveva mai pubblicato prima uno studio scientifico sugli inchiostri utilizzati. L’obiettivo era quello di capire se Beethoven ritornava sulla stesura del suo testo o se usava un approccio alla “buona la prima”, vedendo se fossero utilizzati inchiostri diversi. Questo studio ci ha portato poi ad accedere alla Biblioteca Braidense di Milano per lo studio dei manoscritti originali dei Promessi Sposi e in generale di Manzoni. Dai violini, ci siamo trovati davanti a uno dei masterpiece della letteratura italiana: è la cosa più emozionante che abbia mai studiato, vedermi davanti il manoscritto in seconda stesura con le cancellature con le esatte parole che hai studiato a scuola è stato davvero interessante. Ci torneremo, c’è ancora tanto da studiare. E devo dire che questo mondo degli inchiostri mi affascina molto».
E nel tempo libero, quali sono le tue passioni?
«Anche se sono “scappato” presto, uno dei motivi per cui torno a Vigevano è il basket. La carriera da giocatore non è mai decollata, ma da tifoso ho raggiunto buoni livelli. Tra l’altro a Cremona ci sono due squadre ed entrambe sono rivali di Vigevano, quindi c’è anche questo campanilismo da coltivare. Per il resto, Cremona è una città di provincia e si fa quello che si fa in tutte le città di provincia: si mangia, si beve, si studia e si lavora».
Alessio Facciolo