L’Intervista / Padre Arthur Fojas, missionario “a noleggio”

Puoi dirci a che età hai avuto la vocazione, e come è successo?

«Grazie a san Damiano di Molokai, che in Hawai aiutò i lebbrosi. Ho frequentato la scuola cattolica con i padri belgi della congregazione “Cuore immacolato di Maria”. Sono entrato in seminario nel 1990 al collegio greco a Roma. Quando avevo 10 anni avevo dato un esame per entrare nel seminario minore, papà non era contrario ma scherzava, nel questionario mi chiedevano “chi ti sosterrà?”, ho risposto che avrei fatto dei lavoretti, ma il sacerdote non ha capito. Avrei potuto scrivere che mi avrebbe aiutato mio padre, ma ero idealista. Ho aspettato fino a 15 anni poi entrato in università, la high school, che accoglie studenti da 11 a 15 anni».

Che studi hai fatto?

«Ho preso la laurea in farmacia a Manila nel 1982, poi ho lavorato in un’azienda farmaceutica seguendo le orme di famiglia. Allora nelle Filippine c’era Marcos, poi nel 1984 è scoppiata la rivoluzione. Sono rimasto fino al 1989, poi mi sono recato ad Atene perché il Vescovo cercava chi studiasse per la comunità filippina. Sono stato ordinato nel 2000 dal vescovo di Atene a 39 anni. La scienza biblica è affascinante, la Bibbia è un compendio di teologie, si devono conciliare varie voci: ad esempio, Dio misericordioso e giudice. È importante l’interpretazione del testo. Nel testo originale ebraico si legge “Eva nel dolore partorirai, Adamo nel dolore coltiverai la terra”, ma questo si perde un po’ nella traduzione».

Quante lingue conosci?

«Inglese, filippino, spagnolo, italiano, greco, ebraico, francese, tedesco, latino, aramaico. È bello, ma ci vuole la pratica. Ho studiato lingue all’Istituto biblico di Roma con un master post seminario dopo il baccalaureato in Teologia. Essere poliglotta è un servizio. Ad Atene il sacerdote quando si siede a confessare sa già che amministrerà il sacramento in varie lingue. Anche nella Messa un benvenuto ad accogliere i fedeli di varie lingue celebra la nostra unità nelle nostre ricche diversità. Mi ricordo del mio vescovo emerito, Nikolaos Foskolos che diceva “Malgrado le differenze delle nostre lingue e culture, c’è l’unica fede che ci riunisce”».

Certamente, la conoscenza di varie lingue è un grande vantaggio nel mondo accademico specialmente nella ricerca teologica.

Quali sono i tuoi hobby?

«Ho iniziato a studiare il piano a otto anni, chitarra a dieci, e poi il canto. Mi piacciono la classica e il musical. Considero la musica come una finestra sull’infinito. La bellezza del suono è un invito a essere connessi col nostro mondo delle emozioni profonde e ad aprirci alla trascendenza. Tale bellezza del suono regala emozioni profonde e insieme alle parole trova un’unità profonda nel canto. Suonare e cantare fanno parte della nostra lode a Dio, come un’offerta musicale a Lui gradita. Poi mi piace la matematica, Einstein con la sua teoria della relatività, per la biologia Gregor Mendel. Mi piace leggere: Eschilo, Euripide, classica, filosofia. Cyrano, Guerra e pace, Arcipelago Gulag. Amo il cinema, il mio film preferito è “L’esorcista”. Mi piace il nuoto, pratico tutti gli stili».

Lavorare come Fidei Donum è un po’ come essere un “missionario in prestito”?

«Sì, nella lingua vulgata si può dire “missionario a noleggio” anche se gli studiosi del diritto canonico si metteranno ad una certa distanza a tale definizione. É una collaborazione missionaria tra le diocesi. Fidei Donum tradotto letteralmente dal latino vuol dire “dono di fede“ che si riferisce a un sacerdote a cui è stato permesso dal suo vescovo ordinario di lavorare in una terra missionaria sotto la giurisdizione di un altro ordinario. Nei nostri tempi si riferisce più a un sacerdote proveniente da una Diocesi che lavora in un’altra come collaboratore a tempo, per un tempo determinato. Qui si invoca la cooperazione e la collaborazione tra le chiese sorelle. Si crea una convenzione tra i due vescovi e il sacerdote interessato: “a quo” il vescovo che manda e “ad quem” quello che riceve il sacerdote».

padre arthur
padre Arthur Fojas

Di cosa ti occupi nel tuo ministero?

«È senz’altro una esperienza arricchente. Ma ci si deve preparare bene. Prima di tutto a imparare la lingua del luogo, e secondo, a mantenere un’apertura verso la cultura e accogliere il bello e il buono che si trovano in esso, e più importante saper amare e voler bene al popolo che il sacerdote sta servendo. La pastorale è un campo molto vasto, si occupa di far conoscere Dio e di farlo amare. Sto con gli anziani e i bambini, le persone disabili, la parte debole. I bambini si trovano bene con me, anche gli autistici. Non si vive mai il sacerdozio da soli. La varietà fa gioire, la confessione è già un ministero, una grazia di Dio. Dio non parla solo coi santi, ma anche coi peccatori. Sono stato ad Atene ultimamente, e stare in confessione è bello. Poi ho insegnato lingue bibliche per formare nuove generazioni di biblisti, ma non ci sono le strutture qui e ad Atene. La vocazione nasce dallo Spirito, che soffia dove vuole. Per questo penso che ci deve essere un’apertura, anche per i laici».

Parlaci dei bambini.

«Offro le mie osservazioni ed esperienze accompagnando i bambini nella preparazione ai sacramenti della prima confessione e comunione. Generalmente i bambini provengono dai genitori separati, conviventi, o divorziati e risposati. È una sfida parlare di un Dio padre compassionevole. Si vede un po’ di rabbia dei bambini in questa situazione triste fuori del loro controllo. Ci sono quelli che si affezionano al compagno della madre e poi devono affrontare un cambiamento di un nuovo partner. Come pregano questi bambini? Esprimono a Dio un desiderio ardente di una stabilità di relazione nella famiglia. Il pastore deve sapere dare consolazione e asciugare le loro lacrime. Certamente ci sono anche dei loro sorrisi. Mi sorprendo di come loro vedono il mondo con gli occhi diversi dai miei. Spero che la loro innocenza e creatività siano salvaguardati. Ringrazio Dio per i loro diversi talenti. Talvolta mi chiedo come sviluppare le loro potenzialità. Come aiutarli? Ecco una delle domande che mi vengono. Mi commuovo quando questi piccoli vogliono anche proteggermi. Quando ho ricevuto una pallonata in faccia hanno smesso di giocare e mi hanno chiesto subito se stessi bene. Almeno smettono di dire parolacce quando si accorgono della mia presenza: “C’è il don”. Ci sono anche quelli che mi chiedono come pregare. Ci sono bambine di 6 anni che sono operatrici di pace capaci di dissipare i conflitti. “Ah, perdoniamolo”, è stata la loro reazione a un bambino un po’ iperattivo che si trovava facilmente nei guai con i suoi compagni. Imparo da loro e spero che loro imparino da me. La vicinanza di un sacerdote fa comprendere a loro un Dio vicino».

Si apre una finestra a un Dio con il quale si può dialogare. Con questa apertura, la prima confessione e la prima comunione prendono una radice più profonda nella loro vita.

Come ti trovi con gli anziani?

«Un sacerdote che accompagna gli anziani deve avere la capacità d’ascoltare, dare loro il tempo di raccontare la loro storia, gli acciacchi della vecchiaia, la loro solitudine. Certamente, rimpiangono i tempi passati e trovano difficoltà nell’abbracciare i cambiamenti del presente. Loro ci domandano però come abbiamo perso la dimensione della graziosità nelle nostre relazioni. “Festina lente”, rallentare il tempo per godere della presenza di un altro, almeno guardare il volto uno dell’altro. Gli anziani aspettano con gioia le visite dei loro familiari. Quello che vogliono tramandare alla generazione presente è nient’altro che il meglio del loro tempo, per esempio, lo spirito di sacrificio e solidarietà che hanno vissuto durante la seconda guerra mondiale. La vita ha le sue stagioni. Spero che il sacerdote possa dare agli anziani la consolazione, rafforzare il senso della gratitudine, e di vivere pienamente i rimanenti tempo della loro vita in modo sereno».

L’esperienza con le persone disabili?

«Chiedono una cosa semplice: “Sei per me?” Non gli importa del nostro stato nella società o dei nostri gradi accademici, ma soltanto che siamo presenti per loro. Sono qualche volta brutalmente sinceri del loro mondo affettivo. Se non ti trovano simpatico te lo diranno senza problema. Non filtrano con una censura quello che provano. Ma non ci si deve arrendere facilmente al rifiuto. Ogni relazione umana vuole la pazienza e il suo tempo. Si può far nascere un’amicizia con una presenza semplice e costante».

Davide Zardo

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