Simone, da anni ti prendi cura dei corsi d’acqua milanesi ripulendoli dai rifiuti, un’attività che ti ha procurato numerosi riconoscimenti e il soprannome di Angelo dei Navigli. Come sei arrivato a fare tutto questo?
«Inizialmente era un “plus” durante le ore di lavoro. Io avevo il sogno di insegnare sport e sono partito con la canoa, che era la mia passione. Ovviamente insegnare canoa non sarebbe mai stato, da solo, un lavoro in grado di permettermi di sopravvivere, quindi le ho affiancato l’insegnamento del nuoto. Successivamente sono passato al mondo delle palestre per poi tornare a insegnare canoa a Milano. Sul Naviglio inizialmente lo facevo controvoglia, ma ho poi scoperto che la crisi che stavo attraversando, con una serie di eventi pesanti in pochissimo tempo, in realtà si è dimostrata anche un’occasione di riscatto. Perché mi sono innamorato del Naviglio e ho iniziato a difenderlo dalla profanazione della movida che passava principalmente dall’inquinamento galleggiante, bottigliette e rifiuti leggeri, nei primi anni e che adesso si è sviluppato come inquinamento sommerso di grande e piccolo calibro.
Il simbolo di questa forma di inquinamento, quello che ha fatto più scalpore, sono state le biciclette, ma tiriamo fuori anche carrelli della spesa e ultimamente tanti monopattini.
Sembra che tu abbia un rapporto molto “fisico” con il Naviglio.
«Mi capita, ovviamente, di doverci fare qualche tuffo dentro. Su questo ci tengo a dire una cosa: l’inquinamento che noi siamo abituati a considerare pericoloso non è mai quello fisico, bensì quello liquido, che però è praticamente totalmente assente dal naviglio grande. Le acque del Naviglio grande sono migliori, per esempio, del Ticino stesso. È acqua del Ticino che però per una cinquantina di chilometri non entra in contatto con emissioni di scarichi pesanti. Facciamo due rilevazioni all’anno e da dieci anni il livello di balneabilità è sempre risultati migliore rispetto a Santa Margherita Ligure. Ovviamente il bagno non va fatto, se non per rari casi, ma non per una questione di inquinamento bensì perché, essendo un fiume artificiale, ha delle sponde difficili da risalire».
Hai parlato di un momento di crisi, te la senti di raccontare qualcosa?
«Sì, io l’ho chiamata la “tempesta perfetta”. Nel giro di pochissimo tempo ho perso mio padre Lamberto, sono stato licenziato dal lavoro e ho affrontato il divorzio da mia moglie, che mi ha portato a dover lasciare la casa e la macchina. Mi sono trovato letteralmente a terra… arrivando a passare un periodo in cui l’unica cosa che avevo erano dei pattini, tralaltro presi in prestito, con cui percorrevo Milano passando da un divano all’altro, ospitato dai miei amici».
Che lavoro facevi?
«Io ero direttore sportivo di un importante club milanese che ovviamente non citiamo…»
Com’è quindi che hai iniziato a diventare l’angelo dei Navigli? Molte volte vediamo sulla stampa storie di persone che decidono di dedicarsi al volontariato, ma la domanda che ci si fa sempre è: che cosa scatta in testa quando si prende una decisione come questa?
«Io ho avuto una combo di tre fattori: il primo è quella “tempesta perfetta” di cui abbiamo parlato prima, che si è affiancata ad altre due cose. Da una parte un evento milanese che è quello della Critical Mass (che porta ogni giovedì sera un grande gruppo di ciclisti per le vie della Metropoli per “riprendersi» gli spazi urbani, ndr). Che è un qualcosa di davvero interessante, mi piaceva l’evento e il fine che aveva, tuttavia non mi piaceva il fatto che fosse incontrollata e potesse prendere strade abbastanza imprevedibili. Ovviamente non bastano gli elementi scatenanti da soli, serve avere delle basi. A me, e questa è la terza cosa, le ha piantate mio padre Lamberto che quando ero piccolino e nevicava mi mandava a spalare la neve. Io dovevo spalare il mio vialetto, la macchina di mio padre e il vialetto di mia nonna. Non finiva qui però. Finito tutto, mio padre mi mandava a spalare il marciapiede davanti casa. Io da bambino mi domandavo il perché di questa cosa. Vedevo il marciapiede come qualcosa di pubblico e quindi di non mio. E lì mi è arrivato l’insegnamento per cui se una cosa viene considerata di tutti, alla fine si arriva a non considerarla di nessuno. La panchina, il marciapiede, il Naviglio sono cose mie. E se vengono inquinate mi arrabbio, esattamente come se mi sporcassero il salotto».
E come fai, quindi, a far scattare negli altri quello che è scattato a te?
«Penso che la strada giusta sia la sensibilizzazione diretta. Ti faccio ridere, ti racconto un episodio: noi lavoriamo con persone che devono svolgere servizi socialmente utili o anche con detenuti che hanno permessi per poter uscire al fine di fare quella determinata attività. Un giorno ero sulla sponda di un naviglio con uno di questi detenuti, con cui non avevo ancora approfondito per bene le ragioni per il quale era in carcere. A un certo punto vedo che butta a terra la cicca della sigaretta, pestandola per spegnerla. Appena lo vedo fare questa cosa, gli appoggio una mano sulla spalla e scherzando gli dico “Io ti ammazzo”. Lui subito replica: “No no, ma non posso buttarla nel sacco da accesa, l’ ho buttata a terra per spegnerla, per poi buttarla nel sacco”. La cosa mi ha colpito perché questo ha poi aggiunto: “Sai Simone, che da quando vengo qui io non butto più le cicche delle sigarette per terra? Prima di venire qui nemmeno ci facevo caso. Non ci avevo mai pensato”. La parte divertente è che ho scoperto, successivamente, che la persona a cui avevo detto “ti uccido” era in carcere proprio per omicidio. Aneddoti a parte, secondo me questa è la strada. Perché una persona che viene qui a fare il volontario e a prendersi cura della città, poi anche nel privato assume un comportamento coerente con quello che fa. Penso che la strada sia far vedere il volontariato come qualcosa di bello, pubblicizzare ciò che facciamo come qualcosa di figo. Con buona pace di Baden-Powell, non mi è mai piaciuta l’idea di comunicare che chi salva il mondo lo fa perché non ha altro di meglio da fare. Serve passare il messaggio che è una cosa bella e lo si fa con l’esempio: ho iniziato con i corsisti di canottaggio che, vedendomi tirare su le bottigliette di plastica, facevano poi lo stesso. E adesso, con gli Angeli del bello, facciamo anche attività nei parchi».
Pensi che una cosa del genere possa essere fatta anche a Vigevano?
«Credo che per Vigevano il problema sia trovare una persona che possa far capire l’occuparsi del territorio in modo ordinario e non straordinario. Bisogna far passare l’idea che è figo chi va a pulire il ciglio della strada».
E quindi ora come stai?
«Bhe, diciamo che mi diverto e non mi hanno ancora arrestato. Quindi, fino a quando le due cose coincidono, direi che sto bene».
Edoardo Casati