27 ottobre, XXX Domenica del Tempo Ordinario

Il racconto evangelico di questa domenica presenta una domanda da parte del Signore che si potrebbe dire che appare un po’ “assurda”. Il Maestro chiede a Bartimeo, cieco, che lo cerca ansiosamente, poiché sa che Lui è capace di tutto: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Che domande! È chiaro uno cieco vorrebbe tornare a vedere. Già in altri passi, Gesù chiede a un uomo paralizzato da trentotto anni: «Vuoi guarire?». La risposta pare ovvia. Perché il Signore pone domande di questo tipo?

Certo, Cristo conosce ciò di cui ciascuno ha veramente bisogno, conosce le prove e i limiti che segnano l’esistenza umana. Ma il Signore pone la domanda perché in fondo si rischia di cadere nella logica di non chiedere più un aiuto perché talmente assuefatti dalla propria condizione personale (fisica, psicologica, spirituale…) tanto da accettare la propria situazione e di sentirsi come dei casi irrecuperabili e che, di conseguenza, non c’è miracolo che possa salvare. Quando Gesù chiede al paralitico alla piscina di Betzaetà «Vuoi guarire?», questo risponde quasi rassegnato, come se accettasse quella situazione di malattia e di emarginazione: ma il Maestro compie il miracolo. Però nel caso del cieco Bartimeo è diverso: egli sa bene di essere cieco, sa che è un limite pesante e sa pure che il Signore può liberarlo da questa condizione, perciò si rivolge al Maestro. Allora perché Gesù pone quella domanda che sembra apparentemente così illogica?

Nel caso di un malessere di salute, ciascuno si affida totalmente al medico: descritti i sintomi, ci si fida della diagnosi e delle cure del dottore. Qua accade qualcosa di simile: forse la domanda a Bartimeo –

Che cosa vuoi che io faccia per te?

– è al contempo una dichiarazione di totale disponibilità da parte del Signore e una sua richiesta: «Mi lasceresti davvero libero di cercare e curare?».

Questo atto di fiducia non è poi così scontato: chiedere al Signore di essere guariti dai mali e dalle prove che tormentano la vita, appare un’operazione rischiosa, in quanto il Signore entra con dirompenza nell’esistenza di ciascuno e guarisce anche da quelle situazioni che non si riesce a percepire e comprendere. Il cieco non aveva solo il problema della mancanza della vista, ma anche quello di una vita povera, da mendicante, un’esistenza statica, a margine, ferma lungo la strada. Lasciando agire liberamente il Signore, Bartimeo non solo ritrova la vista, ma si rialza, getta il mantello dietro cui ha nascosto le sue fragilità e si mette in movimento, autonomamente, da uomo libero. L’atto di fede, come per Bartimeo, è una sfida che chiede a ognuno di affidarsi totalmente al Signore, con la certezza che Egli riesce a scovare quei disturbi nascosti che rattristano la vita, donando non solo la salute, ma la salvezza.

don Paolo Butta

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