L’Araldo ha intervistato il vescovo di Vigevano, monsignor Maurizio Gervasoni, in occasione del decennale del suo episcopato. Qual è il filo conduttore di questi dieci anni?
«Prestare attenzione alle dinamiche legate alla fede cristiana, all’annuncio e all’accoglienza del Vangelo. Sono convinto che l’acquisizione di un metodo di programmazione pastorale sia un atteggiamento necessario e arricchente. L’atteggiamento di riferimento in questa programmazione deve essere da un lato di spiritualità e di conversione e dall’altro di attenzione alle dinamiche di senso che le persone vivono».
La visita pastorale del 2016-17 le ha permesso di conoscere tutte le realtà della Diocesi: che comunità ha incontrato?
«E’ stato un primo momento di contatto più ampio possibile, ho notato la ricchezza e la diversità di situazioni legate alle condizioni di vita delle varie comunità, così come il desiderio di condividere alcune linee di sviluppo perché si sentiva l’esigenza di superare alcune difficoltà diventate strutturali. L’ipotesi di riorganizzazione sul modello delle unità pastorali è stata accolta con grande interesse, certo anche con qualche timore».
Un passaggio compiuto attraverso il Sinodo del 2018.
«Il Sinodo non era obbligatorio, ci ha dato la possibilità di anticipare l’esigenza sinodale che papa Francesco ha introdotto in maniera molto forte. La necessità di riforma dell’organizzazione pastorale andava chiarita nelle sue dinamiche profonde, questa presa di coscienza ci ha permesso di individuare la struttura della riforma insieme a tre ambiti pastorali di intervento – giovani, famiglie, poveri – su cui costruire dinamiche organizzate e progettuali di livello diocesano che insistono sul territorio. Siamo lontani dalla realizzazione piena, l’esigenza è introdurre le Unità gradualmente, cercando il massimo consenso possibile».
Lei è intervenuto sulla macchina amministrativa diocesana, ritiene il lavoro compiuto?
«Era un’urgenza dichiarata da chi mi ha mandato, per cui era ed è un tema molto importante. Credo di aver assunto da subito un atteggiamento chiaro e ho trovato attenzione e collaborazione, molti passi in avanti sono stati compiuti. Situazioni drammatiche non ne rilevo, oggi stiamo gestendo una situazione amministrativa con i conti d’ordine in regola. Questa mentalità di correttezza e attenzione amministrativa forse non è ancora diffusissima, tuttavia la strada è tracciata. Che tutte le realtà ecclesiastiche abbiano acquisito cordialmente le indicazioni amministrative, è una questione che vedremo».
Nei dieci anni si colloca anche la pandemia.
«Viviamo nel periodo post, certe volte l’atteggiamento è di dimenticare, mentre le conseguenze sono più strutturali. Dalla pandemia è uscita una conflittualità sociale più elevata, ma anche un’ansia più diffusa, spesso anonima, che non riesce a dirsi, a coniugarsi in maniera esplicita e corretta».
Due GMG, il ruolo di delegato della Conferenza episcopale lombarda per la Pastorale giovanile, la posizione centrale nella pastorale diocesana. Ha un’attenzione particolare per i giovani.
«Ho anche le deleghe per la pastorale del socio-politico e della salute: sono provocazioni molto forti, appassionanti. Abbiamo vissuto un sinodo della Chiesa universale sui giovani, la Pg deve essere preoccupata di far venire fuori la domanda di senso che ogni giovane si trova a dover affrontare diventando grande. Che cosa ci sono a fare nel mondo? In questa domanda di senso deve emergere una parola buona che viene dal Vangelo e dalla testimonianza di Gesù, dobbiamo essere a servizio di questo. E’ stata un’esperienza arricchente e molto provocante per la fede personale. Ci siamo accorti che era necessario un quadro di azioni rinnovato e, attraverso l’esperienza del gruppo pilota, il percorso degli oratori della Lombardia e l’ufficio nazionale della Pg, questo progetto educativo è in via di attuazione LINK».
Che significato ha la beatificazione di Olivelli e che legame ha con il Beato?
«E’ una figura significativa per i giovani, ma anche per la nostra società, per la comunità cristiana. Una figura che è cresciuta nella fede in itinere, sapendo modificare i propri punti di vista mettendoli al servizio di questa. Olivelli è importante per l’attenzione al mondo culturale e alla sfera socio-politica che ha avuto, un aspetto che ha bisogno di essere ripreso nel nostro territorio».
Non ha mai fatto mistero di sentire una particolare sintonia col suo predecessore, il vescovo Caramuel.
«Avevo conosciuto la sua posizione in teologia morale, l’avevo un po’ liquidato col capitolo “controversie morali del passato”. Venendo qui ho avuto occasione di vedere, leggere, approfondire e mi sono stupito di una mentalità così versatile che è stata qui prima di me. E’ sorta una reazione di disappunto nel vedere che nelle trame e nelle strutture della nostra Diocesi la memoria del Caramuel era troppo bassa, in particolare che il museo della cattedrale non desse nessuna citazione di Caramuel mi sembrava non giusto. Questo disappunto è stato un facilitatore, perché ha permesso di rivedere tutto il Museo e l’Archivio, ma anche di accorgersi che a livello internazionale Vigevano è conosciuta più per Caramuel che per altri, al punto che ho lanciato una sfida dicendo che, se per il Comune è la città di Ludovico il Moro, per la Diocesi è la città di Caramuel. Mi auguro che da questo contenzioso Vigevano abbia solo da guadagnarci».
Lo scorso anno la Diocesi ha ricevuto la prima visita di un Segretario di Stato in occasione della consacrazione del nuovo altare del Duomo, ideale apice del programma architettonico, artistico e culturale che ha interessato luoghi simbolo della vita religiosa e civile vigevanese. Perché ha ritenuto questo percorso necessario?
«C’era la necessità di valorizzare il museo e la figura di Caramuel, di sistemare in maniera metodica l’Archivio e la Biblioteca della Diocesi. L’occasione dell’Emblematico Maggiore 2016 di Fondazione Cariplo ha dato l’opportunità di esprimere la presenza della comunità cristiana nel territorio. La visita del card. Parolin per la consacrazione del nuovo altare ha dato un’approvazione importante da parte della Santa Sede».
Che rapporto ha instaurato con Vigevano e la Lomellina?
«Il rapporto del pastore col suo gregge. Non è un rapporto “normale”, nel senso che il vescovo è uno solo; non è solo affettivo, ma pastorale e funzionale alla crescita della fede. Dopo dieci anni sono consapevole di alcuni elementi strutturali della vita della Lomellina. Da un lato le tradizioni religiose, dall’altro l’attuale situazione socio-economica e culturale, che è diventata conclamata nella definizione della Lomellina come area interna. Questo pone problemi politici seri, ma anche attenzione per la qualità della vita, quindi per le azioni che vanno compiute pure a livello pastorale. A maggior ragione le Unità pastorali sono uno stimolo di crescita per superare alcuni di questi problemi».
Quale eredità pensa che lascino questi dieci anni?
«Una maggiore fedeltà al Vangelo, una capacità dei cristiani di volersi bene di più, un desiderio di attenzione agli altri davanti ai cambiamenti strutturali che stiamo vivendo a livello mondiale con energia, migrazioni, economia, finanza, cultura, intelligenza artificiale. Il desiderio di salvaguardare al massimo l’umanità che sta al fondo del cuore di ciascuno».
A cosa lavorerà nel prossimo futuro?
«Innanzitutto la macchina delle Unità pastorali deve procedere, quindi dovremo pensare un’organizzazione della vita della Chiesa più rispondente ai cambiamenti sociali che viviamo, con una valorizzazione dei laici. Certamente mi interessa che la visita che farò quest’anno con i giovani sviluppi una pastorale giovanile che li veda protagonisti con le comunità del loro futuro e del futuro della Chiesa. Gli adulti e le persone più anziane lascino spazio ai giovani per fare queste esperienze e per avere voce nella vita effettiva della comunità. Infine ridisegnare in maniera efficace le figure di vocazione a servizio della comunità, che stanno un po’ patendo. La vita consacrata, il sacerdozio, i ministeri istituiti, ma anche la testimonianza matrimoniale e familiare secondo il Vangelo. Dobbiamo creare le condizioni di confronto, anche strutturali, che papa Francesco chiama sinodalità».
Nei suoi interventi, così come nelle omelie, ha una passione per la complessità del pensiero teologico e filosofico, ma non disdegna di cimentarsi anche con altri ambiti, dal diritto alla comunicazione, dall’edilizia alla vita quotidiana, e non sono rari i momenti conviviali in cui si rimbocca le maniche, che sia per preparare il caffè o caricare delle valigie. Che persona è il vescovo Gervasoni?
«Lo lascio giudicare agli altri. Mi piace l’ambito dello studio filosofico e teologico, permette di avere delle categorie di interpretazione che arricchiscono il senso e danno ragioni più profonde, permettendo di interpretare la realtà in maniera meno emotiva, improvvisata. Essendo quella cristiana principalmente una realtà spirituale, l’atteggiamento di riflessione sapienziale, che è legato all’approccio filosofico-teologico, è prioritario. E’ vero che è un po’ difficile, ma sono del parere che lo studio abbia un ruolo fondamentale. Gli altri elementi penso che siano legati alla mia personalità, al mio carattere; mi sembra di essere attento agli aspetti pratici, operativi, non estetici, ma non tocca a me descrivere questo interesse personale».
Giuseppe Del Signore