Nel Vangelo di questa domenica (XXII del Tempo Ordinario), scribi e farisei interrogano Gesù circa il comportamento di alcuni dei suoi discepoli che «prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). L’impurità, oggetto della disputa, costituisce un tema che forse a noi, lettori di oggi, non è familiare: si trattava, per gli Ebrei, di una condizione in cui si incorreva a seguito del contatto con qualcosa (ad esempio, alcuni animali o una malattia o, ancora, il sangue) che si riteneva “concretizzasse” il male, come se quest’ultimo fosse in grado di “infettare” chiunque lo toccasse; per questo non era possibile accostarsi al culto finché non si fosse tornati “puri”, eliminato il contatto e dopo un lavaggio rituale.
Pur essendone in realtà distinta, l’impurità poteva essere confusa con il peccato perché determinava una sorta di “lontananza” da Dio; peggio ancora, restando all’interno di questa logica falsata, si poteva pensare che il semplice rispetto delle norme di purità, per di più sacralizzate da scribi e farisei sotto l’altisonante denominazione di «tradizione degli antichi» (cf. Mc 7,3.5), fosse sufficiente per garantire la buona relazione con il Signore. Per smascherare la perversione di questo meccanismo, che svuota la fede riducendola a un atto formale da compiere, Gesù cita un passo di Isaia (cf. Mc 7,6-7; Is 29,13) nel quale il profeta denuncia l’inutilità di un culto che si rivela essere una mera «tradizione degli uomini», che nulla ha a che fare con il «comandamento di Dio» (cf. Mc 7,8).
Isaia inoltre, dichiarando l’inutilità dell’onore tributato a Dio solo esteriormente, «con le labbra», se l’interiorità dell’uomo, il suo «cuore», resta lontana da Lui, instrada già verso un’altra, fondamentale distinzione: quella tra «fuori» e «dentro», che leggiamo nel Vangelo subito dopo la disputa con scribi e farisei. Gesù infatti, rivolgendosi alla folla, insegna che
non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (Mc 7,15)
un male che resta “esterno”, al quale cioè l’uomo non acconsente deliberatamente, non può colpire l’uomo stesso in modo puramente meccanico, né può allontanarlo da Dio. È solo nel “cuore” (che nella Bibbia indica la sede di tutta la capacità decisionale dell’uomo; oggi diremmo: nella sua “coscienza”) che egli può diventare impuro: quando, cioè, sceglie il male.
Gesù dichiara la bontà radicale della creazione: viene in mente quel «Dio vide che era cosa buona» che leggiamo, come un ritornello, in Genesi (cf. Gen 1,4.10.12.18.21.25) fino alla creazione dell’uomo, «cosa molto buona» (cf. Gen 1,31). Riscopriamo questa bontà originaria, riflesso di quella del Padre, nella quale siamo inseriti e della quale facciamo parte, e scegliamo di manifestarla nella nostra vita!
don Luca Gasparini