L’intervista / Gian Pieretti, la sua musica fuori dal coro

Cantante, paroliere, compositore. Lei ha una lunga e importante carriera all’interno del panorama musicale italiano: quali sono i momenti che ricorda di più?

«In effetti dopo 60 anni di carriera, penso di avere una lunga storia da raccontare. Io direi che gli incontri più significativi che ho avuto sono stati quelli con Ricky Gianco e con Jack Kerouac, a quali aggiungo naturalmente anche Donovan, Fernanda Pivano, e poi chissà quanti altri, e tutti questi hanno segnato diverse svolte. Ricky Gianco ha iniziato a scrivere con me, e con lui ho scritto tantissimi testi di canzoni. Jack Kerouac, padre fondatore della “Beat generation”, l’autore del libro “On the road”: si stava vivendo l’entusiasmo e la bella euforia dei tempi che segnano la svolta. Il mondo, la realtà cambiava con noi: i giovani di allora erano ragazzi che volevano scegliere per se stessi, essere consapevoli, artefici della propria vita.

Come non ricordare anche la moda del tempo? Era quella dei pantaloni a zampa di elefante, quella dei basettoni, delle camice dalle fantasie improbabili ma allo stesso tempo, irresistibili. La moda arrivava dai gruppi inglesi, i Rolling Stone erano, un po’ per tutti, una sorta di faro.

La musica, ecco, la musica era musica vera: c’era armonia e ritmo. Tutto questo, adesso è stato completamente dimenticato. E’ andato perduto».
Quale fra tutti questi momenti ha rappresentato la maggiore svolta?
«Posso sicuramente dire che Sanremo è stato un ottimo trampolino, come lo è stato per Antoine, e naturalmente la canzone “Pietre” di cui sono anche autore con Gianco».
Il suo nome è in effetti legato al Festival di Sanremo in coppia con Antoine con “Pietre”, in veste di cantante…
«E’ vero, io sono nato come autore, e ho scritto anche per Mina, Celentano, Gianco, Laura Luca, Roberto Soffici e un’altra infinità di artisti più o meno importanti. In coppia con Antoine però cantammo “Pietre”, e

fu anche il Festival che non posso non dimenticare poiché coincide con la scomparsa di Luigi Tenco: ricordo che io e Claudio Villa volevamo sospendere tutto, poi le cose sono andare come sappiamo.

Jack Kerouac e Gian Pieretti nel 1966

Le canzoni che ho scritto appartengono a coloro che le hanno cantate e fatte proprie. No, non mi sono mai detto “avrei voluto cantarla io”, mi stava bene così: quella canzone era il prodotto, la creatura per quel cantante o quella cantante e non poteva che essere così. Per quanto mi riguarda musicalmente sono stato “fuori dal coro”: con Donovan nel 1965, a Londra ho capito che volevo fare quel tipo di musica. Sono partito da lì e nel 1966 è nato “Il vento dell’est”».
Ha scritto tantissime canzoni di grande successo per grandi artisti: l’Equipe 84, Donatello e tanti altri. Quale ricordo le hanno lasciato?
«L’Equipe 84 l’ho scoperta io, a Cattolica, mi presentai, li portai a Milano dove firmarono un contratto per la “Vedette” e non si sono più fermati, nel 1968 uscì “Nel ristorante di Alice”: fu la loro consacrazione musicale».
Lei ha scritto anche per Mina?
«Certo, come dimenticarlo: due canzoni del suo incredibile repertorio sono mie. “Colpa mia” è una: gliela mandai, dopo poche ore mi chiamò e la stava già cantando, con la voce che conosciamo, una voce unica, strepitosa, potente: aveva memorizzato testo e tutto quello che occorre per cantare come si deve in pochissimo tempo».
Ci sarà un suo ultimo disco?
«Sì. Dopo “Nobel” mi sono reso conto che non esisteva più un mercato che mi riguardava e ho deciso che avrei fatto l’ ultimo disco della mia carriera discografica: così è nato “Thank you”, 10 inediti e due cover di Elvis Presley e John Lennon. Ne farò anche un altro, che si chiamerà “Ultima leggenda” e parlerà di Dio. Gli voglio solo dire che so amare, ho potuto vedere, sono un credente: chissà se avrà ancora pena, compassione per noi, per l’uomo, troppo cattivo, che forse merita solo la distruzione».
Cosa pensa del panorama musicale italiano di adesso?
«Io trovo che la musica sia lo specchio dei tempi, di oggi. Mi risulta molto difficile esprimere un parere sulla musica di oggi, dirò che non mi sembra una musica che abbia poesia, e nemmeno melodia, è un’accozzaglia di invenzioni, idee, ma di musica non ne parlerei nemmeno, testi violenti e ritmiche fatte col pc… schifezze. Sono anche convinto che alcuni brani, se è possibile chiamarli così, scatenino violenza, cattiveria, aggressività.

Non ci rendiamo conto di quello che sta accadendo, passiamo da una guerra all’altra, e i conflitti non sono solo quelli tra Stati, ci sono anche nelle famiglie, dove non esiste più il rispetto: ci si inchioda con il telefonino, viene dato il cellulare anche ai bambini.

Io ho una nipote e non smetto mai di ripeterle “ricordati chi sei, come ti chiami, nessuno deve spegnere la tua voglia di sognare”: ma se mi guardo attorno faccio fatica a vedere che questa filosofia tanto semplice quanto logica venga accolta da tanti. Si preferisce la comodità dell’oblio davanti allo schermo dei pc o dei cellulari senza chiedersi dove porterà. Purtroppo».
Quali aspetti le piacciono di più e quali di meno?
«Non mi viene nemmeno da dire cosa mi piace e cosa no, in realtà preferisco le canzoni di una volta. Quando parlo di canzoni di una volta mi riferisco a “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, “Piccolo grande amore” di Claudio Baglioni: canzoni che avevano melodia, poesia, strofe. Insomma dove c’era un contenuto sia musicale che nel testo. Adesso? Adesso anche i nomi dei gruppi musicali fanno orrore. Chi si ricorderà di quelli che vengono osannati quest’anno? Riusciranno ad arrivare a gennaio? Dubito. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che queste band fanno concerti, magari con 20mila persone: è il riflesso, triste, di questa società».
C’è un futuro?
«Non so se c’è un futuro, lo spero, perché stiamo distruggendo la cosa più importante che Dio ci ha dato… la terra e l’amore. Io ho scritto “Pietre” nel 1967 e l’altra sera, a Padova, assieme a due, tre cantanti dei miei tempi, siamo stati ascoltati da 1600 persone, che sono venuti per godersi la nostra musica che è diversa da tutto il resto. Pensando al futuro non posso non ricordare il passato, quello lontano lontano: e le dico, noi abbiamo cominciato a fare musica quanto le prove si facevano nelle cantine, uscivamo completamente rintronati da quelle stanze dove tutto facevo eco.

Altroché le tecnologie di oggi, ma avevamo una baldanza, una euforia totale: avevamo il mondo da conquistare e con cui parlare, cantare, dialogare, divertirci.

Adesso? Oggi anche alcune band molto famose di un tempo usano l’auto-tune che ti intona mentre canti, quindi nessuno di loro canta veramente. Innanzitutto perché non hanno più voce, poi è una strategia: la gente non lo sa, o forse fa finta di non sapere, e loro continuano a riempire gli stadi, le arene, i teatri. Noi ci siamo davvero sbattuti, l’ultimo disco che ho prodotto non ha nulla di “gonfiato” è tutta farina del mio sacco. E basta».
Nel suo futuro ci sono i libri, vero?
«Certo. Ho scritto “Il giorno che non ho incontrato Bob Dylan”: un titolo che racconta cosa mi è accaduto. Perché ben tre volte non mi ha ricevuto: naturalmente il libro è arricchito con molti altri episodi, ma tre volte sono davvero tante, io ci tenevo ad incontrarlo. L’altro libro si intitola “Babbo Natale Polo Nord” ed è un processo al progresso: racconta la storia di una bambina che vuole una bambola, seguendo il suo desiderio volge lo sguardo ad una scia rosa che sparisce verso nord. “Petula”, la bambola si fa rincorrere: nel libro intervisto anche scienziati e fisici che parlano di quello che sta accadendo, è un libro fantasioso. Poi “Quando la morte ti diventa amica”, racconta una sorta di braccio di ferro, teatrino delle illusioni dove ad apparire e sparire è la paura di non tornare a vivere perché si possiede il potere di far creare la morte degli altri».

Isabella Giardini

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