Michele Linsalata, lei da anni coordina le attività di Rete Cultura: come è nata e quali sono i suoi scopi?
«È un’associazione di secondo livello e i suoi scopi sono dichiarati già nel nome stesso: “rete” nel senso di coordinamento, “cultura” delimita le finalità, “Vigevano” riguarda ovviamente il territorio di appartenenza. È stata costituita nel 2015 ad opera di 14 associazioni culturali con la collaborazione dell’ufficio Cultura del Comune, voglio ricordare l’allora assessore Matteo Mirabelli e la responsabile dell’ufficio, Daniela Vecchi. I suoi scopi sono sintetizzati nello statuto stesso: rafforzamento e coordinamento dell’azione delle associazioni, realizzazione di attività comuni. C’è anche una finalità non scontata, quella, cioè, di promuovere progetti che contribuiscano a valorizzare l’immagine della città e del suo territorio».
Quante realtà aderiscono a Rete Cultura e di che tipo?
Trentotto associazioni, tutte impegnate nel mondo della cultura nel suo significato più ampio. Mi piacerebbe citarle tutte, ognuno ha una sua missione e denotano la ricchezza culturale della città, una ricchezza spesso taciuta.
Come è essere presidente di una realtà di questo tipo?
«È una responsabilità e un impegno. Una responsabilità perché si potrebbe fare molto di più, un impegno perché sono tante le difficoltà, specie burocratiche ma anche per l’insufficienza di risorse economiche. A questo proposito devo aggiungere che un aiuto ci viene dato dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, senza il suo contributo riusciremmo a fare ben poco. Ci sono anche soddisfazioni, ovviamente: vedere i tanti eventi in città mi riempie di gioia. Fino a qualche anno fa non era scontato, è una città che mi sembra maturata».
Da qualche anno organizzate il Festival delle Trasformazioni, anche con ospiti importanti… come è venuta l’idea?
«Direi dall’osservazione del nostro mondo… nel corso della sua storia la società umana ha sempre vissuto cambiamenti che in modo più o meno veloce l’hanno trasformata, ma è a partire dagli anni ‘50/’60 del ‘900 che i cambiamenti si sono fatti più tumultuosi. Tutto questo ha trasformato in profondità la nostra società e messo in crisi la nostra identità. Il mondo stesso appare sempre più come un villaggio globale mentre le nostre città hanno perso la propria identità. Ecco, noi tutti questi cambiamenti li percepiamo, li subiamo ma spesso non li capiamo e allora reagiamo con il rifiuto, la chiusura e l’isolamento».
E perché Vigevano?
«Ma perché è uno dei simboli di questi cambiamenti. Al di là della sua storia più antica, è stata una delle capitali del boom economico italiano: come non ricordare a questo proposito Lucio Mastronardi, un attento lettore delle trasformazioni sociali di quegli anni, ma anche Vito Pallavicini che con le sue “canzonette” ha rappresentato quel mondo. Oggi, per le sue caratteristiche, Vigevano appare come una città alla ricerca di una identità. Come tante della provincia italiana».
Ecco, un “Festival delle Trasformazioni”, in un luogo simbolo delle trasformazioni stesse, vuole essere una manifestazione capace di indagare proprio il tema delle tante trasformazioni che avvengono nel nostro mondo a partire proprio dalle città di medie dimensioni.
Come è strutturato? È possibile già fare un “bilancio” delle prime edizioni?
«Si tratta di una manifestazione ancora giovane, la prossima sarà l’ottava edizione, ma c’è da dire che si sono tenute in un periodo di grandi trasformazioni, si pensi al Covid. Non le cito, sono sotto gli occhi di tutti. Ecco, su molti di questi temi il festival ha dimostrato di esserci ed è riuscito a diventare un punto di riferimento per la città e per molti studiosi, fatto sottolineato anche dalla collaborazione con il Dipartimento di Sociologia di Milano Bicocca. Nelle ultime quattro edizioni vi sono stati oltre 200 relatori, tutti di assoluto rilievo, il Festival ha acquisito notorietà e apprezzamento per la sua scientificità e serietà. Certo, il suo è un pubblico di nicchia ma ha l’ambizione di rivolgersi ai tanti che sono interessati a capire verso dove stiamo andando. Anche la prossima edizione sarà sfidante e molto attuale: si parlerà di Smart City e di Intelligenza Artificiale. I temi dell’oggi».
Vigevano qualche anno fa aveva partecipato al bando di capitale della cultura. Ma quella ducale è una realtà che fa cultura? Quali sono i suoi punti di forza e di cosa invece avrebbe bisogno?
«Sì, certo, sembra passato tanto tempo, ricordo che c’era stato un annuncio inaspettato fatto dall’allora sindaco Sala, direi una candidatura nata all’improvviso e non preparata. Allora, accogliendo con favore la proposta, eravamo tutti coscienti che si trattava di una sfida impossibile, dicemmo che poteva essere l’inizio di un percorso, un percorso virtuoso che poteva portare sviluppi positivi per la nostra città. I suoi punti di forza? Direi il suo passato ei suoi monumenti, ma anche il suo presente ad esempio Vigevano come simbolo della middle town italiana, anche con una sua vivacità culturale, la Rassegna Letteraria e un tessuto di associazioni unico. E, infine, direi anche il suo futuro e questa poteva era la sfida vera: una città che si rinnova con la Cultura».
In che senso una città che si rinnova con la cultura?
«È una questione che ripeto da tempo. Le tante indagini sulla qualità della vita dimostrano che la vivibilità nelle città dipende dalla concomitante presenza di due elementi: gli aspetti materiali, essenziali, che riguardano i bisogni primari come il lavoro, la salute, la sicurezza, e quelli immateriali, spesso non considerati, come la presenza di vita sociale e culturale. Sono fattori, quest’ultimi, spesso considerati inutili! Ecco, al di là della candidatura a Capitale della Cultura, questi elementi hanno ancora un loro valore e possono rappresentare la sfida della città per il futuro».
Qual è l’evento che hai organizzato che ricordi con più orgoglio?
«Dico subito che l’organizzazione di un evento non nasce dalla volontà o dall’impegno di una sola persona, è un fatto corale a cui contribuiscono in tanti e trova l’interesse di molti. Detto questo, il mio primo pensiero va al gemellaggio con Matera che abbiamo portato avanti per volontà dell’Associazione dei Lucani e in particolare del suo presidente, Vincenzo Rosato, purtroppo scomparso proprio in questi giorni. Il gemellaggio era nato come riconoscimento ai tanti vigevanesi di origine lucana e col tempo si è rivelata un’opportunità straordinaria: quella che negli anni ’50 del ‘900 era considerata la vergogna d’Italia è diventata nel 2019 Capitale europea della Cultura, simbolo del riscatto dell’intero Meridione, e questo grazie alla volontà e alla visione di alcuni, un risultato raggiunto col contributo di molti. Ecco, dall’esperienza di Matera avremmo da imparare anche noi».
Secondo lei cosa manca, a Vigevano, per fare il grande salto? Per imporsi come città di cultura ed essere maggiormente visitata?
«Non voglio addentrarmi nelle tante proposte che ci sono sul tappeto: sembra che ognuno abbia la soluzione. Mi vengono solo alcune considerazioni a carattere generale. Primo, ricordo una battuta fatta durante un incontro: “Vigevano si muove per tribù”. Ecco, bisogna smettere di muoversi secondo l’appartenenza, recuperare pienamente il significato del “noi”, dei valori condivisi, ma anche del “noi” come territorio, Vigevano non è un’isola. Secondo: non lamentarsi. Ricordo ancora le parole di Adduce, il sindaco di Matera che aveva avviato il processo verso il 2019, che, a coloro che lamentavano l’isolamento anche fisico della città, disse più o meno: “Noi partiamo, se costruiamo, il resto verrà da solo”. Certo, mancano i collegamenti, mancano gli appoggi, ma, costruendo, il resto si imporrà. Terzo: molto spesso ci fermiamo e ci dividiamo sulle piccole cose. Facciamo, tutti, a cominciare dalla politica, uno sforzo per recuperare una “visione”, una visione condivisa della città futura. Puntando alto ovviamente. Ci riusciremo? Mi fermo qui…».
Isabella Giardini