Contenuto riservato ai sostenitori de L'Araldo
Il grande malato d’Occidente si prepara al voto. Gli Stati Uniti vanno alle urne martedì 5 novembre – anche se in realtà il voto per posta è iniziato dal 19 settembre in Winsconsin e si sono già espressi 300mila elettori solo in Georgia – per sapere se il prossimo presidente sarà Donald Trump o Kamala Harris, in entrambi i casi una scelta che influenzerà anche l’Italia, che dall’America, al Medio Oriente, ai Brics osserva Caoslandia e il mondo tutto muoversi alla finestra incapace di una visione.
NOVITA’ Chiunque accederà allo Studio ovale sarà una prima volta: Trump è il primo ex presidente a essere condannato in un processo penale e il primo candidato pregiudicato con tre processi ancora in corso, Harris potrebbe essere la prima donna (e la prima candidata con madre indiana, seppur di ascendenza brahmanica, e padre di origine giamaicana) a prestare giuramento il prossimo 20 gennaio (come stabilito dal XX emendamento). Un grande momento di democrazia che rischia di assumere i toni della malattia: non tanto per la possibilità che Trump vinca a poco meno di 4 anni di distanza dall’assalto a Capitol Hill (per la prima volta nella storia dei cittadini, suoi sostenitori, presero d’assalto il Campidoglio introducendovisi con la forza e uno dei processi di Trump riguarda proprio questo avvenimento), ma perché la “città sulla collina” non sembra più in grado di proporre una classe dirigente all’altezza della sfida. Lo racconta bene Matteo Re nella rubrica “Mappamondo” a pagina 23, dove riflette sulla «sorprendente incapacità di entrambi gli schieramenti di proporre candidati di un certo spessore» evidenziando i limiti dei due contendenti (se su Trump pesano i guai giudiziari, Harris non ha brillato da vice presidente ed è stata scelta solo per assenza di alternative dopo il ritiro, forzato, di Biden).
PRIMATO Non è una questione di potenza, gli Stati Uniti sono di gran lunga la principale a livello economico, militare, tecnologico, culturale e la Cina, al secondo posto, resta a una distanza ragguardevole (per citare un solo dato Ispi ricorda che le spese militari Usa ammontano a 770 miliardi di dollari contro i 240 della Cina, che schierano 11 portaerei a propulsione nucleare più altre convenzionali contro le 2 in servizio cinesi), ma
ci sono tante vulnerabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati che origina principalmente sul piano interno, la difficoltà della democrazia americana credo sia abbastanza visibile,
come sostenuto da Mario Delpero – docente a Sciences Po – a Radio24. Il problema interessa in primis gli Usa e in secondo luogo tutti gli stati, tra cui l’Italia, che dello “impero” americano fanno parte (in senso neutro, di sfera d’influenza) e che manifestano gli stessi sintomi. In generale pare essere il sistema democratico occidentale, così come stabilitosi nel secondo dopoguerra, a essere entrato in crisi sotto le spinte di globalizzazione, rivoluzione digitale, attenuazione del senso di appartenenza e polarizzazione all’interno delle comunità (quale sistema di valori condividono oggi i cittadini di un qualunque stato?).
DIMENTICATI Nello smarrimento che affligge tanto i “forgotten men” quanto le comunità afroamericane, ispaniche e nel distacco dei mondi Wasp e Woke dal resto del Paese, sembra che gli Stati Uniti abbiano smarrito quell’idea di “Destino manifesto” che ha accompagnato l’ascesa delle Tredici Colonie, dagli Appalachi alle Grandi Praterie, da Texas e California alle “navi nere” al largo di Nagasaki, fino alle Filippine e all’affermazione come superpotenza tra i conflitti mondiali e la guerra fredda. Un faro per l’umanità capace di guidare tutto il genere umano verso il progresso; questo almeno nell’idea dei padri fondatori. E non è peregrino tornare al 1776, perché se gli Stati Uniti sono cambiati come popolo nell’arco di 248 anni, non sono cambiate nelle loro fondamenta le istituzioni e l’architettura dello stato. Una Repubblica, prima ancora che una democrazia, anche perché gli estensori della Costituzione, entrata in vigore nel 1788 dopo la votazione del New Hampshire (nono stato ad approvarla) e dopo una lunga mediazione tra federalisti e repubblicani (antifederalisti), diffidavano del potere della maggioranza. Ecco perché il 5 novembre in realtà i cittadini statunitensi non voteranno per il presidente, ma eleggeranno i Grandi elettori (538) a cui spetterà il compito di eleggere il presidente.
Questi di fatto sono i rappresentanti di Camera, 435 in numero proporzionale alla popolazione del singolo stato – più 5 in rappresentanza di “District of Columbia” (3), Isole Vergini, Guam, Samoa, Marianne – e Senato, 2 per ogni stato per un totale di 100.
REGOLE ROTTE Ed è significativa da un lato la presenza di un numero paritario di rappresentanti nella Camera alta del Congresso, cosicché la California (il più popoloso) pesa quanto il Wyoming (il meno popoloso), dall’altro lato il fatto che la Camera bassa, quella che più rispecchia la volontà popolare, sia rinnovata totalmente ogni 2 anni, mentre i senatori hanno un mandato di 6 anni e sono rinnovati per un terzo ogni due. Il sistema elettorale inoltre ha una distorsione intrinseca: per diventare presidente occorre avere più Grandi elettori che voti in assoluto, così ad esempio nel 2016 Trump vinse nonostante Hillary Clinton avesse ottenuto nel complesso più consensi. Il sistema risente della sua età e da qualche anno si dibatte su come si potrebbe cambiarlo (il voto postale ad esempio ha molti limiti pur essendo stato rilanciato dalla pandemia, la transizione da novembre a gennaio appare troppo lunga, i piccoli stati hanno un potere sproporzionato che, se era giustificato in passato per garantirli dal peso dei grandi e dall’azione del governo federale, oggi lo è molto meno), ma per mutare le regole del gioco occorre che i giocatori siano d’accordo. Si torna al cuore del problema, una classe dirigente deficitaria che fatica a riconoscere nell’altro un interlocutore e a far emergere, anche all’interno degli schieramenti, figure nuove al livello più alto. Il sistema perciò non è riformabile? La risposta interessa anche le altre democrazie occidentali. Nonostante questi fattori però proprio dagli Stati Uniti potrebbe venire una prima indicazione: i repubblicani, nella figura del candidato alla vice presidenza J.D. Vance, lasciano intravedere un partito repubblicano meno populista, i democratici hanno governatori giovani che stanno ottenendo risultati positivi, e soprattutto il popolo statunitense sembra aver particolarmente a cuore queste elezioni, come dimostra il voto postale in Georgia, uno degli stati chiave, perché la maggior parte sono o saldamente repubblicani o saldamente democratici e solo gli “Swing State” sono contendibili. Non per forza “Civil War” di Garland deve essere una profezia auto-avverante.
Giuseppe Del Signore