«Cuore generoso», storie di due benefattrici

Una dama del 1600 e la moglie di un imprenditore in piena Rivoluzione Industriale: sono Agnese Riberia e Francesca Manara Negrone, due donne, lontane secoli, ma unite dal bene che hanno fatto a Vigevano.

ANTICHE INSEGNE A guardarlo oggi, non si può fare a meno di notare che Palazzo Riberia ha passato anni migliori. Saltuariamente utilizzato come rifugio da senza tetto e sbandati, lo storico edificio, al centro di un parco stretto tra l’omonima strada e via della Costa, è al momento uno spazio vuoto in attesa di un’importante riqualificazione, che lo vedrà rinascere come cittadella del sociale. Un destino consono a uno stabile che dall’anno della sua edificazione ha ospitato un po’ di tutto: una chiesa ortodossa, aule dell’Università della terza età, un caseggiato popolare, una residenza signorile, un convento, un orfanotrofio, la cui insegna è ancora dipinta su una delle facciate del palazzo. Proprio questa destinazione è da far risalire a donna Agnese Riberia y Castiglia, tra le prime “filantrope” della città ducale. Nata attorno al XVII secolo a Vigevano, figlia del nobile Andrea Riberia, governatore spagnolo della città e di una gentildonna locale, andò sposa al giureconsulto Michele Lanzi. Per seguire la carriera del marito, divenuto membro del Supremo Consiglio d’Italia, si trasferì a Madrid; rimasta presto vedova, fece però subito ritorno a Vigevano, dove si rese protagonista di numerose attività benefiche a favore di conventi e chiese.

POVERE FIGLIE La sua carità non si fermò però solo alle istituzioni sacre. Come ricorda, tra gli altri, lo storico ducale Pier Giorgio Biffigandi Buccella, che circa un secolo dopo ne scrisse abbondantemente sul suo “Memorie istoriche della città e del contado di Vigevano” (con la grafia desueta di donna Agnese Rivera). «Nè qui ebbe termine l’insigne carità di questa liberalissima, e santa matrona – si legge negli appunti dello studioso vigevanese – la quale considerando quanto infelice e pericolosa fosse la situazione di quelle povere figlie che rimangono prive dei genitori fondò nella propria casa la piccola chiesa della Presentazione e vi unì un edificio detto il luogo pio delle orfane per il ricovero, sostentamento ed educazione di dodici povere figlie». L’età delle giovani doveva essere compresa tra i 9 e i 12 anni; tra i criteri d’ammissione c’era l’appartenere a famiglie vigevanesi, essere nate da legittimo matrimonio ma «in pericolo della loro pudicizia». Le fanciulle erano affiancate da una maestra, che avrebbe insegnato loro mestieri «utili e profittevoli». Correva l’anno 1630: undici anni dopo, donna Riberia si spense nel monastero dell’Assunta tenuto dalle Suore Domenicane di via Trivulzio, dove da tempo risiedeva. L’orfanotrofio da lei fondato e il destino delle sue giovani ospiti fu però l’ultimo dei suoi pensieri in vita, come ricorda anche Biffignandi Buccella:

Stabilimento (parla dell’orfanotrofio, ndr) che ella dimandò poi nel 1641 erede universale delle sue sostanze, disponendo tra le altre cose che maritandosi alcune d’esse orfane gli si debbano sborsare lire trecento imperiali.

BENEFATTRICE Nella (poco accessibile, ma interessante) pinacoteca dell’Ospedale Civile di Vigevano è conservato, unica donna tra i filantropi, il ritratto di Francesca Manara Negrone, moglie di Giovan Battista, noto imprenditore nel settore della seta. Non potrebbe essere altrimenti: è stata una delle principali benefattrici del nosocomio ducale, all’epoca in via di costruzione. Manara Negrone, si legge nelle cronache dell’epoca, al momento della sua morte con testamento segreto a rogito del notaio Pietro Torriani di Rapallo, in data 2 marzo 1908 assegnò infatti all’erigendo Ospedale Civile due padiglioni, destinato uno alla maternità e uno ai fanciulli di Vigevano e della Lomellina. Quest’ultimo portò il nome della figlia Maria Negrone contessa di Santarosa, scomparsa prematuramente. Manara Negrone inoltre lasciò cospicue rendite dalla cascine donate all’Ospedale, oltre a un ostensorio alla cattedrale di Vigevano conservato tutt’oggi nel tesoro del Duomo.

L’ISTITUTO Francesca Manara nacque ad Albonese nel 1831. Sposò il commendatore Negrone, matrimonio da cui nacquero tre figlie. Rimasta vedova, in adempimento alle volontà testametarie del marito, fondò quello che probabilmente è la traccia più nota della sua filantropia: l’omonimo istituto maschile di educazione in corso Milano. La costuzione dell’edificio ebbe inizio nel 1905 e la chiesa dell’istituto dedicata a san Giovanni Battista: la statua del commendatore, assieme alle figlie, è ancora presente di fronte all’istituto. E quella struttura, che funziona tuttora pur in altro modo, è monito di quello che recita il suo necrologio: «Donna di alti sensi, di pietà singolare e di cuore generoso».

Alessio Facciolo

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