Osservatorio 12-1 / La parte migliore

«Credete che sarà felice quest’anno nuovo?». «Oh illustrissimo sì, certo». «Come quest’anno passato». «Più più assai». «Come quello di là?». «Più più illustrissimo». Più. Ogni anno si presenta a gennaio con l’auspicio comune di essere migliore del precedente. Un augurio che si fa a cuor leggero, senza pensare all’altro lato della medaglia: per ogni anno migliore ce ne deve essere almeno uno peggiore, in questo modo svalutando tutto quello che si è vissuto fin qui.

Leopardi, nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”, ne fa un esempio di quell’incapacità di afferrare del tutto il piacere, la pienezza dell’esistenza; quando un desiderio lungamente atteso si realizza, la gioia che ne scaturisce è grande, ma sempre un po’ meno di quello che si era immaginato. La percezione è che «ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene», anche Lucio Dalla più di recente cantava «ma la televisione ha detto che il nuovo anno / Porterà una trasformazione / E tutti quanti stiamo già aspettando / Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno»; si è disposti ad abbracciare di slancio il nuovo che avanza: un anno dopo l’altro, col rischio sia di non apprezzare fino in fondo il passato sia di perdere di vista il presente non perché lungimiranti, ma solo perché protesi a inseguire la parola-totem: più.

Nel frattempo il tempo passa e non è possibile restare fermi. Del resto già in questo momento chi si sofferma più su capodanno o il remoto Natale? Il tempo della festa è trascorso, è di nuovo il tempo, tiranno, della produzione. Eppure, afferma il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, «la festa è l’espressione di una vita abbondante, una forma intensiva di vita. Nella festa, la vita si riferisce a sé stessa, anziché perseguire scopi al di fuori di sé. Mette fuori gioco il lavoro e l’agire. Così, durante lo Shabbat, sono proibite tutte le attività orientate a uno scopo. La vita, libera dal proposito, che vibra in sé stessa, costituisce la quiete festiva».

«Non è la determinazione ad agire, ma l’abbandono della festa che ci eleva al di sopra della semplice vita, che sarebbe solo sopravvivenza. La vita, ridotta all’essere attivi, all’agire, è letale».

Una riflessione che mette in discussione uno dei pilastri della civiltà “occidentale”, la vita attiva contro l’ozio, il progresso, inteso come percorso unidirezionale e illimitato. Più. Produrre di più, guadagnare di più, attendersi sempre qualcosa di migliore. Dimenticando che progresso tecnologico-materiale da una parte e culturale dall’altra non hanno lo stesso passo né sempre la stessa traiettoria. Gli anni ’30 e ’40 del Novecento furono anni di grandi avanzamenti, ma vissero l’apogeo dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale.

Lasciare da parte l’ossessione di quest’idea di progresso vuol dire fermarsi, eppure l’ozio non è mai stato visto di buon occhio. Nel Vangelo anche Marta chiede di riprendere la sorella Maria, che stava seduta mentre lei si dava da fare, ma Gesù risponde: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta». I Romani erano d’accordo, per loro lo “otium” era quello che permetteva di dedicarsi alle attività più nobili, mentre le occupazioni quotidiane, il lavoro produttivo, erano semplicemente “nec-otium”, “non ozio”. Il tempo, vero lusso di una società iper-frenetica e irrequieta, merita di essere vissuto. Né più né meno.

Gds

Le ultime

1° maggio / «Dare certezze per il bene di tutti»

Proposte per contrastare la disoccupazione e il lavoro povero,...

Addio a Vincenzo Rosato, anima delle “Genti Lucane”

Politico d'altri tempi e sempre attivo per la sua...

Cilavegna, casa Serena: centro diurno sempre out

Il centro diurno di Casa Serena è chiuso ormai...

Mortara, la fontana tornerà a zampillare

Inutilizzata da anni, la fontana di via di piazza...

Login

spot_img